Editoriale

Cina e Africa, il silenzio e gli errori dell’Occidente

I primi contatti tra Cina e Africa avvennero nell’VIII secolo dC, sotto la dinastia Tang. Con i Ming si diede il via a due spedizioni cinesi nel continente, tra il 1417 e il 1419, poi tra il 1421 e il 1422. Gli interessi della Cina per l’Africa sono dunque antichi, ma d’altra parte, è probabile che gli storici guarderanno all’oggi come l’epoca in cui le relazioni tra il continente e la seconda economia mondiale si sono maggiormente intersecate. Secondo la sua dottrina di arrembante e autoritario capitalismo in salsa cinese, nella cosiddetta Seconda Guerra Fredda la Cina ha certamente il vantaggio di contare su molti stati-amici nel continente in piena ascesa e semi-dimenticato dall’Occidente. Silenziosamente, nell’ultimo decennio, Pechino ha conquistato infrastrutture, aziende, risorse naturali di molti stati africani.

Interlocutore privilegiato di diverse realtà del continente, nella Guerra Fredda, la Cina condivideva con l’eterogeneo gigante diversi capisaldi della dottrina maoista: l’essere non allineati (il cosiddetto Terzo Mondo), l’ostilità alle potenze straniere (leggi Occidente) la solidarietà come valore (leggi collettivismo), il nazionalismo (causa e conseguenze del colonialismo). Fu proprio Mao Zedong che nei primi anni Sessanta mandò in Africa il premier Zhou Enlai a gettare le premesse per una collaborazione strategica. La Cina di oggi costruisce su basi importanti le proprie relazioni con molti stati africani, secondo la logica espansionista che la definisce. Pechino ha differenziato i suoi investimenti in Africa, specialmente quella centro-meridionale. Ha costruito strade, ponti, viadotti, scuole, stadi, ospedali, ferrovie. Infrastrutture di ogni genere.

Ha esportato manodopera cinese nel continente, così come aiuti umanitari. E oggi anche i vaccini anti-Covid-19. Come riferisce Giada Messetti (Nella testa del Dragone) la Cina è interessata alle risorse naturali dell’Africa. La sinologa riferisce a proposito del “modello Angola”. «Dopo la fine della guerra civile che ha sconvolto il paese dell’Africa meridionale dal 1975 al 2002, la Cina è stata la prima potenza a farsi avanti per il programma di ricostruzione post-bellico», scrive l’autrice. «Oggi l’Angola, che è il secondo produttore di petrolio in Africa dopo la Nigeria, esporta più della metà del suo greggio in Cina», ma la politica cinese in Africa non va vista in ottica caritatevole come molti sono inclinati a credere.

Messetti riporta che negli ultimi anni gli investimenti cinesi in Africa hanno superato quelli dell’Asian Development Bank, la Commissione Europea, la Banca Europea per gli Investimenti, l’International Finance Corporation, la Banca Mondiale e il G7 messi assieme. Tra il 2000 e il 2016, il Dragone ha prestato all’Africa centoventicinque miliardi di dollari, equivalenti a oltre ottantacinque milioni di tonnellate all’anno di attività portuali, tremila chilometri di autostrade e duemila di ferrovia. La Cina crede nell’Africa e nel suo futuro. D’altra parte, l’Occidente nel suo complesso ha un rapporto malato nei confronti del continente africano. L’eredità coloniale ha un peso, ma al posto di considerare gli stati africani come partner economici, il grosso dell’interesse europeo – specialmente mediatico – sembrerebbe essere limitato al flusso dei migranti provenienti dal continente a Sud; questo naturalmente non vuol dire che Europa e Africa non abbiano legami commerciali.

Tutti i critici nei confronti del colonialismo europeo e americano sono da anni silenti nei confronti del colonialismo cinese in Africa. Se la politica coloniale è stata oggetto di aspra critica negli anni da parte di alcuni segmenti intellettuali occidentali, è altrettanto vero che le medesime cricche non si sono mobilitate nei confronti delle penetrazioni cinesi in Africa. Lo notava già quarant’anni fa Piero Ostellino (Vivere in Cina). «Quando l’Italietta povera e megalomane andava a costruire strade in Etiopia, invece che ospedali in casa propria, questo era chiamato colonialismo. Ora che la Cina fa la stessa cosa […], questo viene chiamato progresso». Inoltre, «il confine fra colonizzazione e modernizzazione non è […] così netto come […] la propaganda politica e i facili moralismi vorrebbero far credere.» Il moralismo impedisce di parlare non solo in maniera critica della Cina, ma anche delle opportunità che si creerebbero con i paesi occidentali.

La Cina ha investito miliardi per finanziare paesi africani insolventi per poi annetterli al momento della restituzione del credito. Da anni la Cina procede con il giochino dei prestiti agli stati africani: soldi a palate, senza alcun tipo di condizione, ma implicitamente sfruttando la probabile futura insolvenza dei debitori per rivelare importanti asset in seguito. Quando la Cina firma assegni miliardari a diversi stati – e per inciso: sono debiti, non regali – non avanza richieste di sradicamento del malcostume o trasparenza economica. Fa prestiti senza distinzioni: una tecnica che le consente di essere amica di tutti, dalle democrazie alle autocrazie. A differenza di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale che chiedono l’attivazione o l’implementazione di politiche in cambio di prestiti a tasso zero (riforme, controllo della corruzione, libero mercato), la Cina non impone questi standard.

Fu proprio Enlai che promosse il principio di non ingerenza negli affari interni dei paesi in cui si fanno accordi commerciali. Salvo poi, quando il paese debitore è insolvente, spolparlo rilevando infrastrutture per riscuotere il proprio credito. Lo Zambia, come scrive Messetti, oggi deve oltre il settanta per cento del suo PIL alla Cina, cosa che ha creato un sentimento anticinese nel paese. «I cinesi vengono accusati anche di concorrenza sleale, perché le loro aziende, non dovendo sottostare alle convenzioni anticorruzione dell’OCSE, in vigore nei paesi occidentali, hanno notevoli vantaggi in un mondo come quello africano, dove le pratiche corruttive sono molto diffuse.» Il “land grabbing”, l’accaparramento di terre, è una politica prettamente cinese, che ripopola a suo piacimento intere zone dell’Africa, esportando manodopera stagionale cinese a basso costo e a discapito dei lavoratori autoctoni.

Oggi l’Africa è diventata la Cina della Cina: la fabbrica della Cina; e s’inserisce come importante motore della strategia del cosiddetto Sogno cinese di Xi Jinping. Molti stati africani gli servono come alleati al guinzaglio del debito accumulato nei confronti di Pechino. Nigeria e Zambia hanno importanti relazioni con la Cina: non è un caso che Xi abbia scelto Tanzania, Sudafrica e Congo come luoghi della prima visita di Stato, nel 2013. Xi sa benissimo che lo scontro – armato – con gli Stati Uniti, è solo una questione di tempo. Si sta preparando, ma deve fare alleanze che, colpevolmente, l’Occidente – con la parziale eccezione della Francia nell’Africa dell’Ovest – non ha stabilito negli anni. Il soft power usato dal leader cinese serve per accaparrarsi alleati, territori, centrali di controllo per prepararsi allo scontro finale con Washington per il dominio del ventunesimo secolo. Gli è anche più facile con l’Occidente palesemente disinteressato nei confronti del continente africano.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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