
Una scena da Olivia di Sofia Peterson
Per chi è attratto e affascinato dal sogno, e dal modo inspiegabile con cui si manifesta nelle varie fasi del sonno, il film Olivia di Sofia Peterson si rivela, a tratti, una costruzione onirica, con scene frammentate, che continuamente oscillano tra la realtà, rafforzata dalle imponenti riprese di montagne, voli di uccelli, tramonti, vedute notturne, la mattanza in un mattatoio di mucche terrorizzate, il macello dove lavora Dario, che è il padre di Olivia; e con atmosfere irreali e surreali, dove non c’è la nozione del tempo, simboleggiata da un orologio, non ben identificato, da lampade ad olio, da vecchi utensili da cucina, da ombre, e dalla fiaccolata di persone che scalano la montagna per seppellire la piccola casa, dove Olivia e il padre consumano dialoghi circoscritti a poche parole. All’inizio mi sono sentita persa perché non riuscivo a stabilire un contatto con il soggetto del film, sembrava parecchio astruso (forse per questo alcuni colleghi hanno abbandonato la sala?) ma poi lentamente si è fatta breccia la fascinazione per questa pellicola, che mi ha tenuta incollata, con stupore, alla poltrona, per ben due ore. C’è la natura che lenisce l’inquietudine di Olivia, e poi c’è, sullo sfondo, qualche cosa di misterioso e impercettibile che la porta a vivere, con il padre, in cima a una montagna, in una baita con il tetto appuntito dalla forma triangolare. La sinossi ci dice che Olivia sogna di giorno e vive di notte, si incontra con il padre solo al crepuscolo e all’alba, quando il sole che sorge, la accompagna nel sonno. E per il fatto che Olivia sogna, come accade nel sogno, anche il film è articolato, e sembra non avere un senso mentre un senso ce l’ha nel ricostruire e restituire l’interpretazione di ciò che vive la ragazza, che parla con uno scarafaggio, e poi li colleziona, numerandoli e appuntandoli, come fanno gli entomologi. Anche la scena iniziale, che riprende in primissimo piano un occhio a tutto schermo, dalle pupille dilatate e terrorizzate dei bovini che sentono che stanno per essere macellati, è l’iniziazione di quel che si può vivere in un incubo. Anche una delle scene finali, quando Olivia incontra un uomo, sopraggiunto dal nulla, e le parla del suo divorzio, uno sconosciuto che risale con lei la riva del lago o del fiume, ha la sua forza suggestiva e fantasmatica. Olivia corre, di notte, in un campo, mentre viene raggiunta e superata da un branco di cani. Poi balla in un bar, al ritmo di Alma de diamante e nessuno degli avventori le parla. La si vede sdoppiata in lontananza, su una strada deserta, in un luogo abbandonato, un paese disabitato. È un film che mi è rimasto dentro, per la capacità con cui ha toccato parti profonde di me, forse anche smuovendo l’inconscio, ma attivando la parte cosciente della mente, perché il film oltre ad essere, come scrive la regista, “una vita che scorre nel tentativo di congedarsi. E forse di amare. Quando «Io» è un altro”, il film è soprattutto un viaggio stupefacente che mi ha portata ad aleggiare e fantasticare nell’immaginario e nell’immaginazione, sprofondando così nei mondi visionari, nelle atmosfere irreali e sospese dei sogni, che si consumano nell’irrazionale, e si manifestano nell’incoscienza, con il tempo e lo spazio che si deformano.
Nicoletta Barazzoni