Commento

La storia secondo le masse e secondo Dario Fabbri

Ne Il destino dei popoli (Gribaudo 2025) Dario Fabbri sostiene che nel mondo occidentale siamo convinti che la storia abbia raggiunto il suo epilogo, che l’intero patrimonio di conoscenze sia ormai catalogato e che sussista un’unica via accettabile per decifrare gli avvenimenti. Si tratta però di un abbaglio. Le scienze umane rappresentano correnti interpretative, votate a essere oltrepassate, modificate, ripensate. Se davvero gli apparati conoscitivi a nostra disposizione fossero adeguati, non rimarremmo tanto sconcertati da quanto avviene sul pianeta, argomenta l’autore. La geopolitica umana, concetto suo, sorge proprio da questa presa di coscienza. Dal rigetto delle letture semplificate, dei principi irrigiditi. Non sono i governanti, non i pensatori influenti, non le aristocrazie economiche e finanziarie a determinare il corso della storia, ma le masse. Nel fluire dei secoli queste hanno generato altre masse, linguaggio parlato, idiomi, fedi, dimensione mitica, concezioni.

Hanno dato forma al tempo attuale. Poiché le comunità, anche prima di sapersi narrare, operano già. Fabbri invita a guardare le masse mentre forgiano il proprio avvenire. E quello altrui. «Mai come ora risulta necessario tornare alla dimensione aggregata. Muovendo dall’alto al basso», afferma l’autore. Per comprendere gli accadimenti del globo occorre occuparsi di psicologia collettiva. Le masse non hanno chiara percezione di ciò che le pervade nel momento in cui le pervade. «Gli Americani non saprebbero spiegare perché sono tanto depressi, i Russi perché sono impantanati in Ucraina, gli Iraniani perché oscillano tra il disprezzo per gli ayatollah e il timore di instaurare un nuovo regime, gli Europei occidentali perché hanno paura anche della loro ombra». L’intelligenza artificiale non trasformerà l’umanità, secondo Fabbri. «In questa parte di mondo vige la certezza che la storia sia finita, pertanto anche la sicumera che l’intero sapere sia stato codificato».

Il volume affronta all’inizio vicende di masse che sono diventate altre masse che sono diventate altre masse ancora. Per sottomissione, tornaconto o seduzione. Si procede poi alla constatazione che la libertà è nozione percepita in maniera opposta dai principali popoli della Terra, portatori di sensibilità a noi ignote, sostiene Dario Fabbri. Che esamina anche come le narrazioni mitiche siano le maschere con cui le masse raccontano sé stesse. Per cancellare, per ricordare o per diventare altro. Sempre le masse si servono del mito. Per farne un uso interno oppure universale. Non possono sussistere senza. Rielaborando la realtà, propongono insegnamenti a sé stesse, esaltano le proprie origini. Il mito non è semplice racconto, ma necessaria interpretazione delle cose. Gli idiomi, ad esempio, non nascono nei dizionari, ma dalle bocche di chi parla. Si trasformano senza obbedire a regole imposte. Si arricchiscono, si impoveriscono, si diffondono, scompaiono.

Non può mancare anche la religione nell’analisi di Fabbri. Le fedi sono dichiarazioni di chi siamo o non vogliamo essere. In ogni culto pulsa la vicenda di un popolo, la sua lotta per esistere o per conquistare il potere. «Non sono mai esistite, né mai esisteranno le guerre di religione. I conflitti tra popoli sono sempre stati identitari o per la potenza […]. Le collettività hanno abbracciato numerose religioni per affermare la propria alterità rispetto a soggetti vicini o lontani per sedurre altre popolazioni, per accreditarsi una missione imperiale, per agganciarsi o sfilarsi da una specifica civiltà, per gemmare un mondo nuovo». Infine, Dario Fabbri sostiene anche che se liberi di agire i popoli producono o sposano le ideologie che meglio aderiscono al loro sentimento. «Le collettività hanno utilizzato e utilizzano le idee per manipolare nemici e sodali, per inquinarne lo sguardo, per affermare sé stesse».

Amedeo Gasparini

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