Cultura

A Ethan Hawke l’Excellence Award: «Sono più di trent’anni che faccio film»

Ieri sera a Locarno nella cornice della 71esima edizione del Festival del film Ethan Hawke ha ricevuto il prestigioso Excellence Award. Lo abbiamo incontrato per chiedergli del suo ultimo film Blaze e della sua fortunata e lunga carriera di attore e regista.

Un divo che non ha paura di mostrare il passaggio del tempo sul suo volto, né sul suo corpo. Ma Ethan Hawke non è mai stato un divo convenzionale. Attore-feticcio per Richard Linklater, Antoine Fuqua e Andrew Niccol, ma anche protagonista di ruoli iconici per Peter Weir, Sidney Lumet o Paul Schrader e ancora di horror di “serie B”, Hawke è l’opposto dello stereotipo sul divo di Hollywood. Romanziere e artista a tutto tondo, cinefilo onnivoro, attento a ogni sfumatura delle opere d’arte e delle domande che gli vengono poste. Innamorato della vita, anche nei suoi risvolti più negativi, sembra quasi un cantante country con una filosofia zen a sorreggerlo. E lo si intuisce in fretta quando si ha la fortuna di conversare con lui, in un flusso incontrollabile di parole, senza sentirsi mai a disagio. Questa volta i fortunati sono 15 giornalisti da tutto il mondo, che si trovano di fronte all’attore per chiacchierare con lui di una carriera lunga iniziata in tenera età (aveva 15 anni in Explorers e 19 ne L’attimo fuggente). Una carriera tale da valergli l’Excellence Award, consegnatogli in Piazza Grande l’8 agosto 2018, prima della proiezione del suo ultimo film (da lui diretto ma non interpretato): Blaze, storia di un cantante country misconosciuto e autolesionista e della sua tragica fine.

Ethan Hawke – Exellence Award

Come vive la sensazione di un premio alla carriera conseguito così in giovane età?

«Sidney Lumet mi diceva nei suoi ultimi anni: “Se mi danno un premio alla carriera significa che non vogliono che giri un altro film”. Da un certo punto di vista non mi sento all’altezza di un premio alla carriera, dall’altro è come dice il mio amico Richard Linklater: “Non ti montare la testa, questo è solo un checkup di metà carriera. Significa che sei arrivato a un certo livello, ma tra breve torneranno tutti a odiarti e diranno che sei scoppiato. Allora dovrai resistere fino al prossimo giro, quando ti inviteranno come Presidente di giuria” (risate, nda). Ho 47 anni e sono più di trent’anni che faccio film. Non è una faccenda così comune».

Ha lavorato con registi molto diversi per stile e contenuti. Cosa può dirci sulle differenze tra loro?

«Essere in un film di Antoine Fuqua e in uno di Richard Linklater o Sidney Lumet è molto differente. Ho avuto l’opportunità di confrontarmi con queste diverse sensibilità e di capire che non c’è un unico modo né un modo giusto di realizzare un film. Paul Schrader in First Reformed mi ha concesso uno dei migliori ruoli della mia vita, ma stare su quel set era talmente diverso da stare su quello di Prima dell’alba che quasi ti chiedi se si possa considerare lo stesso lavoro. Quello che cerco di insegnare a mia figlia Maya, che sta intraprendendo la carriera di regista, è che è il lavoro interiore a prepararti alle vicissitudini in cui ti imbatterai. Lei è un’entusiasta, farebbe qualunque cosa per essere qui di fronte a voi al posto mio a parlare di un suo film!».

Nella sua carriera ci sono alcuni film che hanno rappresentato una svolta, magari non i titoli che l’hanno resa più famoso… Come Gattaca, per esempio.

«Credo che Gattaca sia uno dei migliori debutti di sempre. Gli studio non realizzano più produzioni così, quel film è stato realizzato con un budget importante. Oggi con quella sceneggiatura verrebbe prodotto un film che costa un ottavo, girato in metà del tempo e tutti gli attori avrebbero un contratto in cui guadagnano solo se il film guadagna. E in quel caso non avrebbero guadagnato niente, visto come è andato il film in sala. Quando Prima dell’alba è uscito è stata la stessa cosa, nessuno voleva vedere un sequel di Giovani, carini e disoccupati… Si chiedevano cosa fosse questa cosa… Eppure siamo qui a parlarne dopo 24 anni. Grazie a questo checkup di metà carriera valuto tutto questo e capisco che è davvero imprevedibile la storia che avranno i film che realizzi, dopo che sono stati messi al mondo».

Ci sarà un nuovo capitolo della “trilogia Before” di Linklater (composta da Prima dell’alba, Before Sunset e Before Midnight), se è lecito chiederlo?

«Certo che è lecito, ma non ne ho idea al momento. C’è una tale simmetria tra quei tre capitoli, che è difficile crederlo. Cominciano con una coppia sulla quarantina che litiga in treno e alla fine diventiamo io e Julie Delpy quella coppia. E c’è qualcosa di bellissimo nel fatto che lo scherzo che Jesse, il mio personaggio, fa alla fine di Before Midnight dia l’idea di un continuum spazio temporale, di un cerchio che continui a girare su se stesso. In questo senso vedo la trilogia compiuta così com’è, ma mi piacerebbe poter rivisitare i personaggi di Jesse e Céline in maniera totalmente diversa, come in un diverso tipo di film… Ho scritto l’altro giorno a Julie che avevo sognato un quarto film per Jesse e Céline, totalmente erotico, roba da far arrossire Bernando Bertolucci (risate, nda). E lei ha risposto “Troppo tardi, hanno già girato Amour”».

Il mancato Oscar per Boyhood l’ha segnata?

«Per niente. Non cambia di nulla la soddisfazione o la percezione del film. In un certo senso è meglio non aver vinto, così la gente passerà il tempo a dire che il film avrebbe dovuto vincerlo, altrimenti sarebbe successo il contrario (risate, nda). Abbiamo realizzato un film tra amici intimi per dodici anni che non ha una trama, semplicemente sul fatto stesso di crescere. E un film del genere ha trovato un suo mercato dal punto di vista commerciale. Questo è un miracolo. Mettersi a piangere perché non ha vinto l’Oscar è più che ingiusto. Era un miracolo che fossimo lì».

Nella sua carriera ha anche lavorato in film di genere, come La notte del giudizio (The Purge). Come è avvenuta questa scelta?

«Beh, il mio primo mentore è stato Joe Dante. E paradossalmente Peter Weir. Due tipi opposti. Weir è il tipo che ti dice “Sveglia, non hai visto niente di Bresson o Fassbinder, che aspetti?”. Dante è il maestro del film di genere come cavallo di Troia. Ti porto a vedere un film di lupi mannari ed ecco che ti trovi di fronte a un film sulla guerra in Vietnam. Jason Blum (produttore della Blumhouse, nda) ha capito questa cosa in pieno. Get Out, ad esempio, non è venduto come un film fondamentale sulla questione razziale: allontanerebbe molta gente, che comincerebbe a sbadigliare. La notte del giudizio è la stessa cosa. L’introduzione ti racconta che “nel futuro, quando ai ricchi non importerà più niente dei poveri…”. È quel “nel futuro” a rappresentare il cavallo di Troia, se no suonerebbe come un film politico da subito e allontanerebbe i fan dell’horror. C’è qualcosa di punk in questo, mi piace».

La città di Austin e la sua anomalia texana rappresentano una grossa sezione della sua carriera, e Blaze, proiettato in Piazza Grande, è un’altra storia su un antieroe di Austin, fantastica e misconosciuta. Pensa che ci siano ancora molti segreti da raccontare sulla sua città?

«Ci sono certe città che rappresentano dei punti focali di qualche movimento e gente da tutto il mondo viene lì per la leggenda che le circonda. Quindi la risposta breve è sì. Ma quella lunga è che questo non vale solo per Austin. In realtà è tutto il mondo a essere così, come per ogni persona al mondo è possibile girare un bel film. Se hai qualcosa da raccontare e sei sincero con te stesso, puoi farlo. È così per un romanzo, è così per un film. Puoi realizzarlo in galera, su una nave… Quando Slacker di Linklater uscì, tutti dicevano: “Hai sentito di questo tizio di Austin che ha realizzato un film con 16mila dollari? Vediamo com’è”. È un grande film, ma la cosa che lo rende incendiario è che il fatto stesso di realizzare un film così rappresenta un atto di ribellione contro il sistema. Stessa cosa per Robert Rodriguez con El mariachi, o con John Sayles nella sua carriera. Oggi il difficile è la parte distributiva di tutto questo, perché là fuori ci sono sempre più film realizzati con i mezzi di Slacker. E la maggior parte di questi è terribile. Ma come fai a scoprirlo e a individuare quelli validi? Esce talmente tanta roba… Sono scioccato da quel che scopro di non conoscere. Su Apple Tv ho scoperto che passava un film con Joaquin Phoenix e Gwyneth Paltrow e non ne sapevo nulla, o che Matt Damon aveva fatto un film con Clint Eastwood e io non lo sapevo! Quando cominci a smarrire per strada film con attori di questo calibro significa che la situazione è ingestibile: cosa ne sarà dei Gattaca di oggi? Ecco perché i festival di cinema sono importanti. Voi giornalisti siete i veri curatori, perché filtrate quel che è importante e quel che non lo è. E date una possibilità a piccoli film che altrimenti non ne avrebbero».

                                                                                                                                                                                                                                           Emanuele Sacchi

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