Musica

A Locarno la poetica di Dylan

Bob Dylan si è esibito ieri sera, con il suo Never Ending Tour, al Palexpo di Locarno, presentandosi in giacca bianca e pantalone di raso nero, affiancato dalla sua Band (musicisti e polistrumentisti di altissimo livello), i quali spiccavano per eleganza: cappello nero a tesa larga, in doppio petto grigio argentato, cosparso da paillettes luccicanti. La scenografia ha giocato un ruolo importante in tutto il concerto. Con enormi fari proiettori alle spalle dei musicisti, e del grande Dylan, (che dalla sua postazione al pianoforte si è alzato raramente se non per agguantare una volta il microfono, con l’intero cavalletto, proprio come fanno le rockstar), la scenografia ha reso l’ambiente particolarmente conturbante, stile vintage, richiamando effetti d’epoca, e riflettendo così una luce avvolgente, non artificiale, con la quale potersi abbandonare per gustarsi il concerto. Su uno sgabello, alla destra del palco, si è intravvista la scultura di una testa, un mezzobusto bianco, raffigurante il profilo di una donna dai capelli ricci, non saprei dire di quale epoca, a quale personaggio femminile si riferisse e cosa voglia significare nel contesto. Sta di fatto che era lì.

Bob Dylan con la sua musica calda, il suo blues inconfondibile, e l’immensa poesia dei sui brani ha trattenuto il pubblico in un ascolto costante, senza distrazioni, il tutto in una compostezza e diligenza davvero sorprendenti: nessuno poteva fare fotografie o filmare, pena l’espulsione dal concerto. Così il rispetto del pubblico alle regole imposte dal grande cantautore, Premio Nobel per la letteratura, ha permesso alla sua voce di irradiare il grandissimo spazio del Palexpo, che tutto sommato, a differenza del volume aperto in Piazza Grande di anni fa, ha restituito, acusticamente parlando, una decorosa tenuta sonora. Non so però se il pubblico in fondo abbia avuto lo stesso riscontro acustico. Bob Dylan è tra quegli artisti senza tempo, il cantautore storico per eccellenza di un secolo socialmente, politicamente e musicalmente importante, la cui immortalità, a tutti i livelli, non scalfisce l’impronta artistica, il segno indelebile che nemmeno il passare degli anni riesce a indebolire. La voce di Dylan, un po’ affaticata dal peso dei suoi 78 anni, ha risuonato maestosa, con quel suo impatto pieno e carnoso, che è indiscutibilmente forte, soprattutto dal profilo della sua unicità. È stato difficile decifrare le parole dei testi che sono la parte storica universale del vissuto artistico di Dylan. Ha aperto la serata con Things Have Changed, proponendo le altre canzoni previste in scaletta come ad esempio: It Ain’t Me, Babe, Highway 61 Revisited, Simple Twist Of Fate, Honest With Me, Like A Rolling Stone e molte altre.
La sua esibizione è stata un misto tra la rivisitazione del passato e la proposta musicale del presente, con arrangiamenti ai brani, scanditi dall’armonica a bocca, strumento icona degli anni Cinquanta.

L’occasione è stata imperdibile non tanto per poter dire “io c’ero” ma per vedere, sentire e ascoltare dal vivo la sua grandezza, resa tale da tutto ciò che ha rappresentato, tutt’ora rappresenta e continuerà a rappresentare. Al termine del concerto Bob Dylan si è congedato senza grandi esternazioni, con la sua caratteristica aria severa e distaccata. Al saluto finale ha lasciato il palco con un accennato e fugace inchino, una vaga mossetta di ringraziamento. Ha concesso il bis quanto basta, per poi riaccendere le luci d’un colpo, e mettere fine agli applausi. Lui, un uomo che con le parole e la poetica, ha scritto, suonato e cantato l’epica della musica; raccontato e denunciato la storia dolorosa del nostro tempo. Lui che è un big tra i big, che però non ama interagire con il pubblico perché evita di coinvolgerlo, non intrattiene, con i suoi fans, quel dialogo da spettacolo che spesso fa la differenza con altri grandi della musica. Un pubblico che silenzioso, composto, (c’erano molti turisti d’Oltralpe), si è lasciato alle spalle la serata, per alcuni indimenticabile, per altri una delusione. Infatti c’è stato chi, fermo in coda mentre si aspettava di uscire, ha esordito con: “a Ginevra abbaiava, qui mi è piaciuto”. Uno spettatore svizzero tedesco, con qualche capello grigio, lo ha definito “komisch”; un altro aveva la faccia di chi si è addormentato per tutto il tempo del concerto. Mentre una signora ha detto: mi devo comperare subito l’ultima maglietta della serie nuova, allo stand dei gadget. Ammetto che Dylan non è mai stato il mio cantautore preferito. Forse per questo motivo sono rientrata a casa senza avvertire vibrazioni particolari, senza aver provato grandi frequenze emotive che mi abbiano colmata di soddisfazione, pensando anche al costo non indifferente del biglietto. Ma questa è una questione di preferenze e non di grandezza e capacità artistica, musicale e canora perché bisogna dare a Dylan quel che è, solo e soltanto, di Dylan. Tutto il resto, lodi e lamentele, possono rivelarsi relative e soggettive.
I componenti della Band sono: Charlie Sexton (chitarra), Tony Garnier (basso), Don Herron (lap & pedal steel, violino) e George Recile (batteria).

Nicoletta Barazzoni

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