Marta Ottaviani, o meglio, Erdogat, il felino domestico trovato proprio nella città sul Bosforo, ha scritto un libro, Istanbul (Paesi Edizioni 2025). L’Io narrante è proprio un gatto autoctono di Istanbul. Una scelta simpatica quanto originale, ma anche coraggiosa ed un espediente per oscurare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, anche lui di Istanbul e di questa già sindaco. L’ironia e l’autoironia dell’autrice arricchiscono il saggio. Nel volume si raccontano le molteplici sfumature della città in cui Ottaviani ha vissuto a lungo. Con grande determinazione, dopo la sua formazione, la giovane giornalista decise di trasferirsi in Turchia, intuendo che quel Paese avrebbe assunto un ruolo cruciale. Nel volume sono analizzati fenomeni come la gentrificazione di alcune zone, il contrasto crescente con altre aree e il progressivo appiattimento delle diversità etniche e religiose. Ma a dettare il ritmo è il passo del gatto.
Nelle città musulmane il gatto è amato. «A Istanbul i gatti sono gli unici che ancora possono fare tutto ciò che vogliono». Con gli occhi del felino, si attraversano pasticcerie, caffè, moschee e chiese. Dalla Grand Rue de Péra alla torre di Galata. Da piazza Sultanahmet alla Moschea Blu, fino al Palazzo Topkapi. E Santa Sofia, naturalmente. Che Mustafa Kemal Atatürk trasformò in museo. Un segnale di apertura verso un’utopica democrazia musulmana laica, capace di parlare anche all’Occidente. In questa visione, una Turchia laica significava che luoghi come Ayasofya dovessero appartenere a tutti, senza divisioni religiose. La sua riconversione in moschea da parte di Erdoğan rappresenta, secondo l’autrice, un colpo inferto al principio di laicità. Atatürk immaginava una Turchia liberale, aperta all’economia globale, senza imposizioni religiose come l’obbligo del velo, con diritti per tutti e attenzione alle minoranze.
Tuttavia, dopo la sua morte, il progetto venne tradito da una classe dirigente – tra burocrati, militari e politici – incapace di comprendere che una parte significativa della popolazione non condivideva quella visione di modernità. In questo contesto viene analizzato il difficile rapporto con il genocidio degli armeni, avvenuto tra il 1915 e il 1916, e che la Turchia ancora oggi nega. Eppure, Ottaviani – pardon, Erdogat che compie anche diversi giri tra la gente – definisce i turchi di Istanbul aperti, sereni e gentili. Un popolo sorridente, ospitale. «Mai andare a casa di un turco a mani vuote», avverte. La forte crescita economica che ha segnato la Turchia, soprattutto nei primi anni del governo di Erdoğan; ha trasformato radicalmente interi quartieri urbani. Erdogat ci conduce a Karaköy, un tempo abitato da diverse minoranze, tra cui greci e armeni. Poi c’è Fener, quartiere greco. E Balat, dove viveva la comunità ebraica sefardita.
In Turchia è sempre esistito un sentimento filopalestinese, che Erdogan ha contribuito ad alimentare e rendere ancora più intenso. A ricordare l’importanza della città, Ottaviani adduce anche una serie di citazioni sulla città: «C’è un solo modo per conoscerla bene, Istanbul: girare da solo, a piedi, e smarrirsi», secondo Umberto Eco. «Istanbul è un posto vasto. Ci sono quartieri molto conservatori, ci sono posti dove vivono le classi alte, occidentalizzati, che consumano la cultura occidentale», ricorda Orhan Pamuk. «O conquisterò Istanbul o Istanbul conquisterà me», frase attribuita a Maometto II detto il Conquistatore – perché conquistò Bisanzio, già Costantinopoli, il 29 maggio 1453. «Nessun pennello o penna può descrivere adeguatamente la bellezza del paesaggio di Istanbul», secondo Alphonse de Lamartine. Forse esagerava Napoleone Bonaparte: «Se la terra fosse un unico Stato, Istanbul ne sarebbe la capitale».
La città fu inoltre meta di illustri pellegrinaggi, tra cui quello di François-René de Chateaubriand («La gente aveva ragione quando diceva che non esiste nessun altro posto sulla terra bello quanto Istanbul»). Ma oggi, come Venezia, soffre del fenomeno dell’over-tourism. L’esempio è il Gran Bazar, costruito negli anni Sessanta del XV secolo. E attira ancora centinaia di migliaia di visitatori. Perché «Istanbul è una bellezza universale e immensa davanti alla quale il poeta e l’archeologo, il diplomatico e il mercante, la principessa e il marinaio, il Nord e il Sud, tutti gridano con lo stesso senso di fascinazione», secondo Edmondo De Amicis, che su Istanbul scrisse un’opera notevole, elogiata da Pamuk. In definitiva, aveva ragione Konstantinos Kavafis: «Non troverai un nuovo paese, non troverai un altro mare … Questa città ti verrà a cercare».
Amedeo Gasparini
Marta Ottaviani, o meglio, Erdogat, il felino domestico trovato proprio nella città sul Bosforo, ha scritto un libro, Istanbul (Paesi Edizioni 2025). L’Io narrante è proprio un gatto autoctono di Istanbul. Una scelta simpatica quanto originale, ma anche coraggiosa ed un espediente per oscurare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, anche lui di Istanbul e di questa già sindaco. L’ironia e l’autoironia dell’autrice arricchiscono il saggio. Nel volume si raccontano le molteplici sfumature della città in cui Ottaviani ha vissuto a lungo. Con grande determinazione, dopo la sua formazione, la giovane giornalista decise di trasferirsi in Turchia, intuendo che quel Paese avrebbe assunto un ruolo cruciale. Nel volume sono analizzati fenomeni come la gentrificazione di alcune zone, il contrasto crescente con altre aree e il progressivo appiattimento delle diversità etniche e religiose. Ma a dettare il ritmo è il passo del gatto.
Nelle città musulmane il gatto è amato. «A Istanbul i gatti sono gli unici che ancora possono fare tutto ciò che vogliono». Con gli occhi del felino, si attraversano pasticcerie, caffè, moschee e chiese. Dalla Grand Rue de Péra alla torre di Galata. Da piazza Sultanahmet alla Moschea Blu, fino al Palazzo Topkapi. E Santa Sofia, naturalmente. Che Mustafa Kemal Atatürk trasformò in museo. Un segnale di apertura verso un’utopica democrazia musulmana laica, capace di parlare anche all’Occidente. In questa visione, una Turchia laica significava che luoghi come Ayasofya dovessero appartenere a tutti, senza divisioni religiose. La sua riconversione in moschea da parte di Erdoğan rappresenta, secondo l’autrice, un colpo inferto al principio di laicità. Atatürk immaginava una Turchia liberale, aperta all’economia globale, senza imposizioni religiose come l’obbligo del velo, con diritti per tutti e attenzione alle minoranze.
Tuttavia, dopo la sua morte, il progetto venne tradito da una classe dirigente – tra burocrati, militari e politici – incapace di comprendere che una parte significativa della popolazione non condivideva quella visione di modernità. In questo contesto viene analizzato il difficile rapporto con il genocidio degli armeni, avvenuto tra il 1915 e il 1916, e che la Turchia ancora oggi nega. Eppure, Ottaviani – pardon, Erdogat che compie anche diversi giri tra la gente – definisce i turchi di Istanbul aperti, sereni e gentili. Un popolo sorridente, ospitale. «Mai andare a casa di un turco a mani vuote», avverte. La forte crescita economica che ha segnato la Turchia, soprattutto nei primi anni del governo di Erdoğan; ha trasformato radicalmente interi quartieri urbani. Erdogat ci conduce a Karaköy, un tempo abitato da diverse minoranze, tra cui greci e armeni. Poi c’è Fener, quartiere greco. E Balat, dove viveva la comunità ebraica sefardita.
In Turchia è sempre esistito un sentimento filopalestinese, che Erdogan ha contribuito ad alimentare e rendere ancora più intenso. A ricordare l’importanza della città, Ottaviani adduce anche una serie di citazioni sulla città: «C’è un solo modo per conoscerla bene, Istanbul: girare da solo, a piedi, e smarrirsi», secondo Umberto Eco. «Istanbul è un posto vasto. Ci sono quartieri molto conservatori, ci sono posti dove vivono le classi alte, occidentalizzati, che consumano la cultura occidentale», ricorda Orhan Pamuk. «O conquisterò Istanbul o Istanbul conquisterà me», frase attribuita a Maometto II detto il Conquistatore – perché conquistò Bisanzio, già Costantinopoli, il 29 maggio 1453. «Nessun pennello o penna può descrivere adeguatamente la bellezza del paesaggio di Istanbul», secondo Alphonse de Lamartine. Forse esagerava Napoleone Bonaparte: «Se la terra fosse un unico Stato, Istanbul ne sarebbe la capitale».
La città fu inoltre meta di illustri pellegrinaggi, tra cui quello di François-René de Chateaubriand («La gente aveva ragione quando diceva che non esiste nessun altro posto sulla terra bello quanto Istanbul»). Ma oggi, come Venezia, soffre del fenomeno dell’over-tourism. L’esempio è il Gran Bazar, costruito negli anni Sessanta del XV secolo. E attira ancora centinaia di migliaia di visitatori. Perché «Istanbul è una bellezza universale e immensa davanti alla quale il poeta e l’archeologo, il diplomatico e il mercante, la principessa e il marinaio, il Nord e il Sud, tutti gridano con lo stesso senso di fascinazione», secondo Edmondo De Amicis, che su Istanbul scrisse un’opera notevole, elogiata da Pamuk. In definitiva, aveva ragione Konstantinos Kavafis: «Non troverai un nuovo paese, non troverai un altro mare … Questa città ti verrà a cercare».
Amedeo Gasparini