Cinema

Almodóvar e Loach si riprendono il Concorso

Con le code del weekend, a Cannes è arrivata anche la pioggia, che ha creato ancora più disagi a chi quest’anno ha deciso di seguire il festival da giornalista. Sta facendo discutere, infatti, lo spostamento delle proiezioni anticipate per la stampa al pomeriggio, che sta costringendo i quotidianisti a far uscire i loro articoli con un giorno di ritardo rispetto alla proiezione ufficiale del film. Staremo a vedere se questo nuovo “colpo basso” della direzione porterà qualche professionista a disertare la prossima edizione…

Intanto il Concorso si è rianimato grazie al passaggio di due autori di lungo corso, Pedro Almodóvar e Ken Loach. Quasi unanime il pensiero sul primo, che con Dolor y gloria ha stupito la critica regalando una sorta di auritratto accorato e di profonda sincerità, interpretato dai suoi attori feticcio Antonio Banderas e Penelope Cruz. Per lui potrebbe aprirsi la strada del Palmares, e chissà che finalmente non arrivi anche una Palma d’oro, dopo il premio per la migliore sceneggiatura ottenuto nel 2006 con Volver.

Loach invece aveva ricevuto una Palma d’oro piuttosto contestata tre anni fa per Io, Daniel Blake, vincitore anche del premio del pubblico al Locarno Film Festival. Questa volta, con Sorry We Missed You – in cui si racconta la disgregazione di una famiglia, causata della precarietà professionale – l’autore inglese sposta il bersaglio, passando dalla denuncia della burocrazia a quella dell’“autonomia” promessa dal mondo del lavoro  contemporaneo e in particolare dall’ambigua retorica delle start up. Nel momento in cui in diverse parti del globo proliferano nuove forme di sfruttamento come quella dei rider, che sfrecciano a tutta velocità nel disperato tentativo di non perdere turni di lavoro, Loach ha aggiornato il racconto della catena di montaggio scegliendo come protagonista proprio un fattorino, Ricky. O, meglio, un “dipendente autonomo” di una società di Newcastle, che effettua consegne a bordo di un furgoncino preso a noleggio. È questa la truffa nemmeno tanto scoperta a cui siamo oggi assoggettati: la promessa di poter essere “padroni del nostro tempo”, svincolati da ogni forma di subordinazione, e insieme la beffa di dover sottrarre tempo a tutto ciò che forma la nostra identità. Per il protagonista di Sorry We Missed You questa forma di alienazione si traduce nell’impossibilità di seguire l’educazione dei propri figli, che sono trascurati anche dalla madre, costretta a correre da un paziente bisognoso all’altro. Per questo nel film di Ken Loach non si fa che correre. Il protagonista subisce continui colpi bassi dalla sorte, ma non ha materialmente il tempo di opporvisi. A differenza di Daniel Blake, nella sua agenda quotidiana non c’è posto per l’indignazione, perché questo implicherebbe l’espulsione dall’ingranaggio. Così, il suo si rivela un itinerario senza meta – lo stipendio diviene vano se nel mentre la famiglia ha cessato di esistere – e da percorrere in solitaria, senza altri passeggeri al proprio fianco.

Un elemento ricorrente che sta attraversando diverse narrazioni sin qui viste è poi quello degli zombie. D’altra parte, l’apertura horror di Jim Jarmusch con The Dead Don’t Die aveva dettato la linea. Dopo di lui in Concorso sono arrivati anche gli zombie di Mati Diop, regista di Atlantic, nipote del regista Djibril Diop Mambéty, che ha mescolato racconto fantastico e documentarismo per mostrare l’immigrazione da un punto di vista inedito: quello delle persone che restano, e che magari devono affrontare il lutto per qualche parente perso in mare. Ma gli zombie hanno fatto capolino anche nella sezione indipendente della Quinzaine, in Zombie Child di Bertrand Bonello, sorta di teen movie in cui la storia di alcune ragazzine in un collegio francese dialoga con quella di un morto vivente di Haïti. L’obbiettivo in tutti i casi è quello di utilizzare l’elemento orrorifico a scopo politico, per raccontare una lotta impossibile contro le grandi ingiustizie contemporanee, o per riflettere sul tema delle radici. Perchè i conti con il passato non sono mai davvero chiusi.

Francesca Monti

 

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