Pescatore di perle (Feltrinelli 2025) di Alain Finkielkraut deve il suo titolo alla definizione che Hannah Arendt diede di Walter Benjamin. Che, come un pescatore, si gettava nelle profondità degli abissi per comprendere quello che c’era sotto. Così tenta di fare anche il filosofo francese, che in poco più di cento pagine esplora in alcuni scritti le tematiche del nostro tempo, alterando storia e cronaca, sociologia e filosofia. L’autore ha trascritto negli anni con molta cura nei suoi taccuini frasi, aforismi, riflessioni. Ed ora ne è nato un libro. Ma queste annotazioni non erano semplici tracce del pensiero altrui, quanto stimoli da cui far scaturire la propria elaborazione. Il libro pesca nel mare dell’opera degli scrittori amati: Paul Valéry, Milan Kundera, Elias Canetti, Emmanuel Lévinas, Marc Bloch, Thomas Mann, Alexis de Tocqueville, Virginia Woolf, Aleksandr Solženicyn, Friedrich Nietzsche e Vladimir Jankélévitch. Nell’opera, Finkielkraut esplora in particolare tre grosse tematiche.
La prima è l’amore. Che si vuole neutralizzare in una relazione contrattuale, democratica, rigorosamente egualitaria dimenticando che «amare è essere dominato, soggiogato, soggetto a qualcuno. Amare è essere subordinati. Amare è l’esperienza inaudita di un’alienazione migliore della libertà». E amare «anche quando il desiderio è meno pressante, è respirare la pelle, posare un bacio su labbra socchiuse, accarezzare le forme». Una seconda tematica è quella della cultura, oggi tollerata nella sua dimensione di pratica sociale. Così, clip, manga e videogiochi, verso cui Finkielkraut è critico, condividono lo stesso spazio simbolico di ciò che un tempo era occupato dalla letteratura. «Il primo miracolo è nel fatto di dire buongiorno», sostiene l’autore. Un’altra dimensione centrale è quella politica, dove l’antirazzismo – giustamente affermatosi come principio cardine della morale pubblica – tende oggi a degenerare fino a stigmatizzare qualunque distinzione tra chi accoglie e chi è accolto.
«La cultura generale fa le spese della lotta contro le disuguaglianze e, proprio come le belle città non incoraggiano più i turisti a vestirsi in modo decoroso, così anche i classici non fanno più testo. La borghesia colta è finita con l’aristocrazia nel pattume della Storia». Finkielkraut denuncia aspramente l’ascesa del wokismo nelle università, dove le discipline tradizionali sono state soppiantate da una miriade di studies – african-american studies, women studies, gender studies, queer studies, lesbian studies, gay studies, whiteness studies, subaltern studies, post-colonial studies, etc. Questa proliferazione nasce da un legittimo desiderio di riscatto rispetto a una storia dolorosa, vero. Ma si trasforma in un’ossessiva caccia alle ingiustizie e discriminazioni. Entra poi in scena anche Renaud Camus, controverso scrittore e amico di Finkielkraut, noto per la sua teoria della “Grande Sostituzione”. Che lo stesso filosofo difende, pur consapevole della sua carica provocatoria.
Non ci sarebbe nulla di male se questo non fosse l’approdo reazionario di un pensatore che alla fine del libro si lascia andare al passatismo stantio e retrogrado che non coglie l’evoluzione dei tempi. «Prima del culturame globale, la cultura era meglio. La Repubblica era migliore prima dei territori perduti. La maturità era migliore quando non era uno scherzo. L’elitarismo per tutti era meglio dell’antielitarismo. La convivenza era migliore quando la parola non esisteva. La lotta di classe era migliore del divario francese. […] Il mondo reale era migliore dello schermo totale. […] “Madre” era meglio di “A mà”. […] I “professori” era meglio dei “prof”. […] L’uniforme era meglio dell’uniformità […]. Gli occhi vedevano meglio quando c’erano i poeti». Non proprio un discorso di chi si definisce pescatore e ha il dovere di vedere le cose da più angolature. E non può permettersi il lusso di essere un nostalgico.
Amedeo Gasparini
Pescatore di perle (Feltrinelli 2025) di Alain Finkielkraut deve il suo titolo alla definizione che Hannah Arendt diede di Walter Benjamin. Che, come un pescatore, si gettava nelle profondità degli abissi per comprendere quello che c’era sotto. Così tenta di fare anche il filosofo francese, che in poco più di cento pagine esplora in alcuni scritti le tematiche del nostro tempo, alterando storia e cronaca, sociologia e filosofia. L’autore ha trascritto negli anni con molta cura nei suoi taccuini frasi, aforismi, riflessioni. Ed ora ne è nato un libro. Ma queste annotazioni non erano semplici tracce del pensiero altrui, quanto stimoli da cui far scaturire la propria elaborazione. Il libro pesca nel mare dell’opera degli scrittori amati: Paul Valéry, Milan Kundera, Elias Canetti, Emmanuel Lévinas, Marc Bloch, Thomas Mann, Alexis de Tocqueville, Virginia Woolf, Aleksandr Solženicyn, Friedrich Nietzsche e Vladimir Jankélévitch. Nell’opera, Finkielkraut esplora in particolare tre grosse tematiche.
La prima è l’amore. Che si vuole neutralizzare in una relazione contrattuale, democratica, rigorosamente egualitaria dimenticando che «amare è essere dominato, soggiogato, soggetto a qualcuno. Amare è essere subordinati. Amare è l’esperienza inaudita di un’alienazione migliore della libertà». E amare «anche quando il desiderio è meno pressante, è respirare la pelle, posare un bacio su labbra socchiuse, accarezzare le forme». Una seconda tematica è quella della cultura, oggi tollerata nella sua dimensione di pratica sociale. Così, clip, manga e videogiochi, verso cui Finkielkraut è critico, condividono lo stesso spazio simbolico di ciò che un tempo era occupato dalla letteratura. «Il primo miracolo è nel fatto di dire buongiorno», sostiene l’autore. Un’altra dimensione centrale è quella politica, dove l’antirazzismo – giustamente affermatosi come principio cardine della morale pubblica – tende oggi a degenerare fino a stigmatizzare qualunque distinzione tra chi accoglie e chi è accolto.
«La cultura generale fa le spese della lotta contro le disuguaglianze e, proprio come le belle città non incoraggiano più i turisti a vestirsi in modo decoroso, così anche i classici non fanno più testo. La borghesia colta è finita con l’aristocrazia nel pattume della Storia». Finkielkraut denuncia aspramente l’ascesa del wokismo nelle università, dove le discipline tradizionali sono state soppiantate da una miriade di studies – african-american studies, women studies, gender studies, queer studies, lesbian studies, gay studies, whiteness studies, subaltern studies, post-colonial studies, etc. Questa proliferazione nasce da un legittimo desiderio di riscatto rispetto a una storia dolorosa, vero. Ma si trasforma in un’ossessiva caccia alle ingiustizie e discriminazioni. Entra poi in scena anche Renaud Camus, controverso scrittore e amico di Finkielkraut, noto per la sua teoria della “Grande Sostituzione”. Che lo stesso filosofo difende, pur consapevole della sua carica provocatoria.
Non ci sarebbe nulla di male se questo non fosse l’approdo reazionario di un pensatore che alla fine del libro si lascia andare al passatismo stantio e retrogrado che non coglie l’evoluzione dei tempi. «Prima del culturame globale, la cultura era meglio. La Repubblica era migliore prima dei territori perduti. La maturità era migliore quando non era uno scherzo. L’elitarismo per tutti era meglio dell’antielitarismo. La convivenza era migliore quando la parola non esisteva. La lotta di classe era migliore del divario francese. […] Il mondo reale era migliore dello schermo totale. […] “Madre” era meglio di “A mà”. […] I “professori” era meglio dei “prof”. […] L’uniforme era meglio dell’uniformità […]. Gli occhi vedevano meglio quando c’erano i poeti». Non proprio un discorso di chi si definisce pescatore e ha il dovere di vedere le cose da più angolature. E non può permettersi il lusso di essere un nostalgico.
Amedeo Gasparini