Commento

Andrea Graziosi va alle radici del concetto di razza

Andrea Graziosi ha scritto Il ritorno della razza (Laterza 2025) per andare alle radici del concetto e del problema di razza. Un pamphlet che traccia gli eventi culturali e storici salienti di questa parola maledetta dalla Storia, partendo dall’antica Grecia fino al ritorno del nazionalismo oggi. Graziosi afferma che «visto l’esistenza di differenze che sono tanto ovvie quanto innegabili, e a loro modo il sale della terra, l’uguaglianza possibile e “giusta”, sia. Quella delle pari dignità, un’uguaglianza quindi formale che certo ha bisogno di qualche sostegno materiale ma non deve mai trasformarsi in una richiesta di uguaglianza sostanziale che porta all’inferno proprio perché il mondo è fatto e, e per fortuna, di differenze». Il contrario dell’uguaglianza sono appunto le differenze, che vanno declinate al plurale. Il mondo antico non sembra aver conosciuto il concetto simile a quello di razza.

Ai tempi di Socrate gli esseri umani erano considerati tali perché provvisti di ragione. La prospettiva della schiavitù era un prodotto innaturale. Aristotele sostenne l’esistenza di una specie separata di “schiavi naturali” (Politica), di governo di individui che non sono padroni di loro stessi. Sosteneva che il clima temperato aveva contribuito per i greci ad una superiorità rispetto ai popoli nordici, meno intelligenti a causa del freddo. D’altra parte, il colore della pelle degli etiopi non era oggetto o causa né di disprezzo. E neppure di discriminazione. Nell’anno Mille il sangue e la discendenza erano considerati come fondamentali. Con la Bolla d’oro (1356), Carlo IV incoraggiò i principi elettori ad imparare le lingue perché aveva capito che governava diverse nazioni distinte in costumi, vita e lingua. Un regno con un solo popolo, si sosteneva nella Bolla, era un paese debole e fragile.

Nel 1959 Gianfranco Contini fece discendere la parola razza da “haraz”. Questo termine d’alto francese comparve attorno al 1160 ed era legato all’allevamento dei cavalli nel Medioevo, quando la nobiltà si sentiva allora una razza diversa perché di “sangue superiore”. Nel 1492, mentre Cristoforo Colombo scopriva l’America, la Spagna decise l’espulsione di massa degli ebrei per motivi razziali, oltre che religiosi, inaugurando una stagione sanguinosa alla ricerca di una purezza etno-religiosa europea. Nel 1614 vennero cacciati 300mila moriscos. Andrea Graziosi ricorda che nel 1537 la Veritas Ipsa di Papa Paolo III condannava la riduzione in schiavitù degli amerindi del nuovo mondo e li considerava uomini come altri. D’altra parte, si scagliava contro il domenicano Bartolomé de Las Casas, difensore degli indiani che invece ipotizzava che gli esseri umani fossero uguali, ma diversi negli stadi di sviluppo.

Durante la Riforma, la teoria della predestinazione facilitava lo stabilimento di gerarchie in base al favore di Dio e questo contribuì a rafforzare la dottrina del razzismo, specialmente d’impronta calvinista (boera in Sudafrica e olandese in Indonesia). Nel 1684, François Bernier sostenne un’umanità divisa in razze contraddistinte dai colori su base gerarchica (la teoria razze-colori). Nel Settecento David Hume e Voltaire si erano chiesti se i neri non fossero diversi non solo dai bianchi, ma da altre popolazioni umane. Il primo criticò la teoria del clima e sostenne che tutti i tipi di temperamento prodotti della natura erano ovunque. Ma la loro distribuzione variava nel tempo a seconda del variare del tipo di governo e di governanti. Sostenne che i neri erano inferiori ai bianchi. Un’affermazione sbagliata, ma che, ricorda Graziosi, era ovvia a chi sosteneva e constatava ogni giorno la superiorità della cultura, ricchezza e scienza europea.

Quanto al polemista francese a metà del Settecento egli sostenne che i bianchi erano superiori ai neri. I quali erano superiori alle scimmie, le quali erano superiori alle ostriche. Apprezzabile di Voltaire era che si sforzava d’indagare la natura per come era e non per come la religione la insegnava. Tuttavia, non aveva ancora sviluppato la scienza e la coscienza indispensabile per comprenderla come la conosciamo oggi. Carlo Linneo sostenne che l’umanità era divisa in quattro tipi: bianca europea, rossiccia americana, fulva asiatica e nera africana. Tuttavia, anche nel suo caso, purtroppo, la varietà bianca era quella superiore. L’importante era la concezione di popolo, assunta nel mondo tedesco a fine Settecento con la crisi del popolo cristiano e l’impulso dei processi di nazionalizzazione e politicizzazione del concetto di nazione. Con la connessione americana il “We, the people” si constatava un popolo riunito nelle differenze.

Il mondo francese stava dando il contributo decisivo alla nascita di un nuovo concetto di popolo fatto di opposizione agli stranieri e dall’affermazione delle élite francesizzante di un popolo contadino e artigiano. Negli Stati tedeschi si fece largo il concetto di “Volksgemenschaft”, presupposto nazionale e naturale della nazione e dello Stato. Saint-Simon appoggiò il ripristino della schiavitù degli africani da parte di Napoleone Bonaparte. L’epoca, ricorda Graziosi, prevedeva che «il futuro, il mondo di domani, non era quello dei diritti, ma quello dei doveri, di individui che erano tali solo perché appartenevano a una società ad essi superiore e alla quale dovevano obbedienza». Con Johann Gottlieb Fichte s’introduce la teorizzazione dei popoli-razza dotati di caratteristiche proprie. Si raffinano con il concetto di superiorità dei tedeschi non solo verso i più primitivi slavi, ma anche rispetto ai francesi proclamati inferiori perché, a differenza dei tedeschi, erano stati sconfitti dai latini.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel aggiunse la capacità di un popolo di produrre uno stato nazione e dunque la manifestazione palese della sua superiorità. Pierre-Joseph Proudhon definì gli ebrei nemici dell’umanità; andavano rimandati in Asia e sterminati. Nel 1844, Benjamin Disraeli diceva nel Coningsby «La razze tutto: non c’è altra verità». Nel 1848 si palesò la lotta tra i popoli-signori i popoli in cerca di emancipazione in tutta Europa. E si sognava la formazione di stati fondati su e da popoli-razze pure. Karl Marx sostituì le classi ai popoli come agenti della Storia e la lotta delle prime contro i secondi come il motore della Storia stessa. Friedrich Engels si pronunciò a favore di una guerra per cancellare dalla terra non soltanto classi e dinastie azionarie ma anche interi popoli reazionari.

Joseph Arthur de Gobineau è una figura cruciale in questo periodo. Ragionando sulla decadenza francese, ricorda Andrea Graziosi, il Conte si convinse di avere risolto il problema generale delle civilizzazioni spiegando la contaminazione delle razze che le avevano fondate. Era colpa della diluizione che si creavano altri gruppi umani. Nonostante de Gobineau si definisse antinazionalista e pro-europeo non era ostile agli ebrei, certo, ma i suoi studi furono alla base per tutto il razzismo successivo. Sono gli anni del dibattito di Giuseppe Sergi e Cesare Lombroso. Di razza aveva parlato anche Giuseppe Mazzini. E pure Camillo Benso parlò di “forte razza piemontese”. Per Jean Jaurès razza e colore erano categorie fondamentali. È chiaro che allora il concetto era riferito a precisi indicatori delle capacità umane. Charles Darwin ribadì che gli esseri umani esistenti appartengono a un’unica specie.

Secondo il biologo, i discendenti da un unico gruppo originario come dimostrava il fatto che i suoi membri potevano riprodursi senza problemi tra di loro malgrado la notevole varietà del loro aspetto fisico. Nel 1893, Charles Henri Pearson invitò gli europei a imparare a convivere con le popolazioni di colore che prima o poi li avrebbero raggiunti e anche superati. Ma la reazione politica, dell’America la Germania fu di segno opposto. In California l’immigrazione asiatica fu vietata. Cecil Rhodes istituì ad Oxford la cattedra di “Race relations”. L’economista Franz Oppenheimer definì l’esperienza europea orientale con popoli conquistatori, ovvero i tedeschi russi e turchi, dunque, ungheresi, italiani, polacchi, greci con i popoli asserviti ovvero gli slavi, rumeni, baltici. Oppenheimer vedeva l’origine dello Stato in una conquista che sottometteva le popolazioni locali creando gerarchie sociali. All’inizio del Novecento i colti bianchi temevano di essere sommersi. L’eugenetica rispondeva a queste paure.

Paure forti del mondo anglosassone che si legarono alla tradizione di Robert Malthus e alla necessità del controllo delle nascite finalizzato all’impedimento della proliferazione di quelle “eccessive” e “sgradevoli”. Di razza parlava anche Vladimir Žabotinskij, fondatore dell’estrema destra ebraica ed ispiratore del Likud. Usava “razza” come perno di retorica antimperiale antirussa. Nel 1911 a Londra, l’Universal Races Congress ospitava anche Israel Zangwill, dirigente sionista socialista che aveva reso celebre l’espressione “melting pot”. Nel 1919 a Versailles il Giappone, ricorda Andrea Graziosi, condusse una battaglia per fare della uguaglianza delle razze uno degli obiettivi principali della società delle Nazioni. Ma venne fermato dalle potenze imperiali. Lo stesso Woodrow Wilson era favorevole alla segregazione razziale. Nel 1935 Julian Huxley, biologo e fratello di Aldous Huxley, fece una proposta con il manifesto dei genetisti riunitosi a Edimburgo nel 1939 per condannare il termine di razza.

Con il nazismo ci fu la rottura fondamentale. Le visioni nazionalsocialista promuoveva un impero razziale costruito sulla razza ariana e indogermanica che doveva eliminare altri gruppi ritenuti subumani. Dopo il disastro della Guerra e dell’Olocausto iniziò a farsi strada nell’intellighenzia europea all’uso del concetto di razza. Fu così che la carta dell’ONU parla di “people of the United Nations”. Per Claude Lévi-Strauss l’etnocentrismo era un punto di vista ingenuo, ma radicato nella maggior parte della popolazione. È il caso dell’ex detenuto dei gulag e figlio di Anna Achmatova, Lev Nikolaevič Gumilëv. Che elaborò la teoria dell’etnogenesi di popoli e razze – le super-etnie. Martin Luther King si era appellato al cristianesimo che parlava di persone con uguale dignità e non di gruppi a cui assegnare status diversi. La sua lotta non può essere una lotta dei e per i neri, ma di tutti e per tutti.

Oggi è evidente che la questione razziale è un costrutto sociale pericoloso e manipolabile. Il diritto alla differenza – e non all’uguaglianza – deve essere mantenuto e sviluppato. La nuova destra si distingue per la sua capacità di celebrare la differenza come ideale di vivere nel proprio paese. Ma rifiuta i “diversi”, dunque, sì alla celebrazione di se stessi come nativi di discendenza, ma durissimi contro gli immigrati. Certo, la destra di oggi ha abbandonato l’antisemitismo. Ma abbracciato un’ostilità culturale verso alcuni nuovi arrivati. Illuminante è la considerazione di Pierre-André Taguieff: «Il principio della recente metamorfosi ideologica del razzismo consiste proprio nel fatto che l’argomento dell’ineguaglianza biologica tra le razze è stato sostituito con quello dell’assolutizzazione della differenza tra le culture». Si tratta, del resto, di una metamorfosi in linea con la tradizione tedesca del popolo-razza-Volk.

Per riprendere il titolo dell’opera, la razza è tornata. Ma come la rivendicazione più identitaria secondo ideali nati dalla critica alle ingiustizie del presente in quello che Andrea Graziosi definisce un populismo etnico che si nutre di richiami alla difesa di comunità naturali “minacciate” apparentemente nella loro identità. «Gli esseri umani, nella loro infinita varietà e diversità, sono tali in quanto individui dotati di ragione lingua la coscienza è libero arbitrio e non perché appartengono a questo o quel gruppo collettivo […]. Queste categorie possono essere spesso espressioni di differenze reali e sono altrettanto spesso utili e persino indispensabili all’analisi della realtà ma anche quando lo sono è fondamentale ricordare che si tratta comunque di nostre creazioni intellettuali transeunti e instabili […]. Se reificate e trattate come entità superiori agli individui […] possono portare alla catastrofe».

Amedeo Gasparini

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