Commento

Anna Zafesova analizza il Putinismo, come ideologia e sistema

Per capire la Russia oggi occorre indagare le dinamiche di potere del regime di Vladimir Putin: è il tentativo, ben riuscito, di Anna Zafesova. Che con Russia. L’impero che non sa morire (Rizzoli 2025) ripercorre le vicende nel paese dagli anni Novanta, momento sliding doors, all’invasione dell’Ucraina. Tutto ha inizio dall’istruzione. Nel 2023, su iniziativa di Putin, è stato imposto un libro di testo unico e obbligatorio per l’ultimo anno scolastico, nel quale l’azione politica di Mikhail Gorbaciov è considerata disastrosa e il termine perestroika è presentato in modo sarcastico. Un tentativo di riscrivere la Storia, sebbene nel dicembre 1991, quando la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino, nessuno dei trecento milioni di sovietici scese in piazza per difendere l’URSS. Eppure, già nel 2005 la frase di Putin «la disgregazione dell’Urss è stata la maggiore catastrofe geopolitica del Novecento» aveva fatto discutere.

Quando nel 2000 Putin fu eletto presidente, il 75 per cento dei russi dichiarava di rimpiangere il vecchio Paese in cui era nato. Il futuro era piombato addosso al mondo post-sovietico all’improvviso. E travolse milioni di persone con un’ondata di novità, nomi, colori, sapori, gesti e oggetti mai visti prima. Secondo Zafesova, il Comunismo aveva smesso di essere un ideale da raggiungere, mentre la proprietà privata, già considerata una maledizione, era diventata prima tollerabile, poi accettabile e infine un obiettivo desiderato. In questo contesto, tutto ciò che non apparteneva all’universo sovietico veniva guardato con sospetto. Si parlava solo dei presunti mali dell’Occidente – pubblicità, droga, rock, omosessualità, affari, scioperi, cibo per cani. Ma questo ha causato malesseri nella rottura degli equilibri tradizionali e nella rapidità con cui sono cambiate tecnologie, relazioni in un contesto disabituato alla velocità e alla modernità.

«Era tutto pianificato, non solo l’economia; un’esistenza povera, ma regolamentata. Recitando meccanicamente le formule quasi religiose della propaganda, senza mettere troppo in discussione il mondo intorno, si poteva vivere una vita incasellata e tranquilla: si andava prima all’asilo, poi a scuola, poi i maschi facevano il militare, poi si finiva un’università o un istituto tecnico, ci si sposava, si veniva assegnati a un posto di lavoro, si faceva un figlio, ci si iscriveva alla lista d’attesa per un appartamentino […] e poi si viveva la piccola felicità sovietica, con le sfilate e le tavolate per le feste comandate, le vacanze negli alberghi del sindacato sul Mar Nero». Mentre in Occidente i mutamenti sono avvenuti in modo graduale, in Russia la modernizzazione è giunta con decenni di ritardo, stravolgendo un Paese a lungo isolato. La società russa ha sperimentato uno shock del futuro, senza gli strumenti culturali o emotivi per affrontarlo.

Per anni la vita era andata avanti lentamente, poi improvvisamente tutto è cambiato. Un esempio emblematico? L’homo sovieticus non era preparato a gestire la cronaca nera, gli incidenti aerei, i disastri ambientali, le fughe radioattive, le epidemie, gli incendi o i crimini clamorosi. La rivelazione che l’URSS non fosse il paradiso ha rappresentato un trauma. «È questo sentimento di smarrimento ad aver reso Putin così amato dai suoi concittadini. Era uno di loro. Aveva sperimentato le stesse cose, sognato gli stessi sogni, vissuto le stesse delusioni. Era portatore dello stesso trauma». Tutto ciò ha acuito il malessere di molti russi nei confronti della democrazia. E ha alimentato un senso diffuso di disorientamento e impotenza. In questo clima di incertezza e nostalgia per l’ordine perduto, l’ascesa del consenso attorno a Putin è apparsa come una risposta rassicurante.

«I russi hanno reso la loro libertà spontaneamente, come un oggetto di cui non sapevano cosa farsene […]. La democrazia ha attecchito molto meno di quello che aveva pensato – e sperato – l’Occidente». Secondo l’autrice, la Russia ha vissuto una lunga fase di future shock – una combinazione di crisi economica, globalizzazione, rivoluzione nei valori e nei costumi, trasformazioni tecnologiche. L’eccessiva centralità assunta da Putin in questo contesto – diventato perno, motore e unico protagonista della politica russa – si sta però rivelando un boomerang. La sovraesposizione putiniana ha trasformato la vita politica in un monologo permanente. Tutto ruota attorno a lui. «Putin è diventato agli occhi dei russi l’unico responsabile di tutto quello che accade: del prezzo del burro, dei missili, dei roghi forestali e dei programmi televisivi». Situazione rischiosa. «Il giorno in cui montasse un’ondata di rabbia, ne sarebbe l’unico bersaglio».

Gli altri volti della politica sono apertamente suoi cortigiani e il regime poco fa per nasconderlo. In sostanza: «il sistema è lui». In Russia mancano contropoteri e meccanismi di contenimento. L’invasione dell’Ucraina ha sorpreso e sconvolto persino gli oligarchi più vicini a Putin che non si aspettavano l’operazione su larga scala. Eppure, costoro sanno che un’eventuale uscita di scena del presidente comporterebbe il crollo del sistema da cui traggono benefici. Come sottolinea Zafesova, non si tratta di imprenditori che si sono fatti da soli. Il loro potere e la loro fortuna derivano dalla vicinanza al potere. Per questo non si sono mai opposti al presidente. In questo modello di governo, infatti, il consenso non si costruisce dal basso. S’impone dall’alto. «Il potere del denaro si è sostituito con il potere del potere, e il sistema è stato copiato come in una matrioshka a ogni livello della Federazione Russa».

«Oggi, in Russia, una delle paure maggiori condivise da oligarchi e oppositori, soldati e funzionari, è la morte di Vladimir Putin: […] perché alleati e nemici convengono nel pensare che senza di lui il sistema a “cambio manuale” collasserà. La politica del divide et impera, la lotta tra vari clan che hanno come unico garante di sopravvivenza il loro padrone supremo, la brutale repressione di qualunque dissenso». La paura suprema è quella di rivivere il collasso come negli anni Novanta. La nuova élite putiniana, sempre più improntata a mentalità e modi militari e abituata a trarre profitti dallo Stato anziché dal libero mercato, ha preso il posto dei russi fuggiti nel 2022. In questo contesto, quasi nessuno crede che un cambiamento reale sia possibile. Come ha scritto Vadim Zhuk, poeta morto nel 2025: «Un giorno di febbraio siamo morti / e ora moriamo tutti i giorni».

Putin ha sempre mirato a un sistema privo di contraddittorio. E secondo Zafesova questa tendenza si lega alla “paranoia Putin”. La giornalista ricostruisce il suo percorso politico e personale. Putin è un uomo che parte come funzionario, con una carriera da gregario. Si trasferisce a Mosca ed è scelto da un gruppo di pietroburghesi nei meccanismi del potere proprio perché non ha una base propria né figure forti alle spalle. Putin è introverso, privo del carisma del leader capace di infiammare le masse, inadatto al confronto e alla condivisione del potere. Si affida a un controllo totale e diretto. Per lui governare significa agire con il cambio manuale. «Putin si trova bene con chi non gioca secondo le regole, ma costruisce un sistema incentrato sulla propria persona, crede nelle intese private e non nei processi, nel potere del ricatto e non nella supremazia delle leggi».

Putin non ha mai avuto fiducia nelle masse. Ha sempre guardato con sospetto ai movimenti popolari. Anna Zafesova, parlando della guerra in Ucraina, analizza le radici del conflitto. Nel 2015 il leader del Cremlino decide di congelare la situazione nel Donbas accettando gli accordi di Minsk, perché proseguire con una guerra ibrida avrebbe significato trasformarla in un’invasione vera e propria, un passo per cui non era ancora disposto a pagare il prezzo – politico, economico e d’immagine. All’epoca, i cittadini russi non erano pronti a sacrificarsi per il Donbas, allorché la Crimea era stata annessa senza spargimenti di sangue. Le sanzioni internazionali incutevano ancora timore. Ma soprattutto, Putin nutriva l’illusione di poter essere riammesso nel consesso internazionale, come accadde dopo l’invasione della Georgia nel 2008. Nel 2015 il Cremlino tenta allora di riconquistare legittimità globale proponendosi come partner nella lotta contro l’Isis.

La parte conclusiva del libro di Zafesova, ricorda una verità scomoda: a lanciare le bombe in Ucraina non è (solo) Putin, ma molti russi. Troppi per considerarli una minoranza insignificante. L’eccezione sembrano invece essere i russi “buoni”, quelli costretti a dimostrare all’estero di essere diversi dai loro connazionali “cattivi”. Molti di questi sono rimasti in Russia o si sono trasferiti in paesi come Serbia, Israele o Lettonia, senza rompere con il regime e mantenendo le loro attività e patrimoni in patria. Non amano il putinismo né la guerra. Ma allo stesso tempo non nutrono simpatia per la causa ucraina. La Russia post-comunista non ha eliminato né i simboli ideologici nelle città né le persone che ne erano state custodi. Di converso, a Varsavia, Praga, Berlino, Budapest e Bucarest fu introdotta la lyustratsiya – cioè il divieto per gli ex dirigenti di partito e della polizia politica di ricoprire incarichi pubblici.

«Condannare il Comunismo come ideologia criminale e il gulag come macchina di sterminio che aveva generato milioni di vittime avrebbe potuto aprire ferite da guerra civile, e invece di dissotterrare il dittatore si preferì coprire la sua tomba di fiori, per non turbare nonni e padri, in nome della riconciliazione nazionale». È da questo senso di offesa e ingiustizia che germoglia in buona parte il revanscismo putinista. «L’Ucraina ha scommesso sulla costruzione di un futuro, la Russia sul recupero di un passato». La Russia è «un impero che non sa morire, non avrebbe potuto evitare invece di ammettere delle responsabilità, un processo considerato talmente doloroso da aver preferito negare qualunque colpa. L’Europa non poteva essere un obiettivo realistico. […] Troppo arretrata e troppo grande per venire assorbita […]. Di fronte al grande caos postcomunista, la risposta della Russia è stata […] resuscitare le glorie del passato».

Mikhail Epshtein sostiene che «le fonti storiche dello schizofascismo russo giacciono molto più in profondità rispetto a una reazione morbosa (risentimento) al collasso del sistema sovietico». La propensione alla violenza come modus vivendi e modus operandi – sempre più anacronistica rispetto alla modernità occidentale – ha raggiunto nell’invasione dell’Ucraina un apice di brutalità arcaica. Che gli ucraini non siano lo stesso popolo dei russi lo si è dimostrato in questa guerra. In tre decenni l’Ucraina ha dimostrato che la storia non è una condanna. «Se e quando la dittatura russa finirà, per far ripartire – probabilmente di nuovo per volontà di qualche “zar buono”, in una rivoluzione dall’alto – un processo di ritorno di Mosca alla civiltà non si potrà non passare da un mea culpa». Solo una sconfitta in guerra possa dare giustizia agli ucraini e la libertà alla Russia.

Amedeo Gasparini

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