I viaggi di Manuela

Barcellona (2)

Il viaggiatore è un alter ego del flâneur, uno senza mete prefissate che ama vagabondare e ascoltare il respiro delle città. (Attilio Brilli)

Sabato – El Raval
Barcellona si sveglia senza fretta. Io sono già fuori alle 9 di mattina. Strade semideserte. È gente calma e tranquilla, in genere, quando non protesta. E io, da pedone, lo giudico attraverso i semafori: mentre quelli delle città nordiche sono isterici, qui, il verde permette di attraversare la strada più larga anche alla persona più lenta…
Ho deciso di rivisitare il quartiere che mi ospita, una volta equivoco oggi, come si dice, “riqualificato” anche sull’onda turistica, cosa che non ha fatto felici gli abitanti. Una moda, diventata un termine-slogan che leggo su un cartellone: ravalejar, andare a spasso per il barrio. La volta scorsa ho scritto “marciatrice”, pensando alla mia camminata, ma è un termine un po’ militaresco. In realtà vorrei usare quello più poetico, nato come maschile e solo recentemente sdoganato nella sua versione femminile, di flâneuse, quel vagare, vagabondare nella città, senza fretta, lasciandosi sorprendere e cogliere dalle emozioni provocate dall’osservazione.
In realtà alcune mete ce le ho. A proposito, negli uffici del turismo potrete munirvi di tessere per pacchetti di itinerari culturali, quello archeologico ad esempio o quelli che riguardano edifici del Modernismo. Ma state attenti: se pensate di non entrare in tutti quelli proposti, o nei giorni stabiliti (secondo alcune offerte, lo straniero in due o tre giorni dovrebbe affrontare una insensata overdose), allora non risultano quasi mai convenienti. Almeno per me.
Per ora percorro il Carrer de l’Hospital dove si trova l’antico ospedale in cui Gaudì morì nel 1926, ancora tutto chiuso, il tempo di dare un’occhiata al cortile e, proseguendo, m’imbatto nella Rambla del Raval, sul cui fondo troneggia il simpatico gattone di Botero. Ma la mia prima destinazione di visita sarà Palau Güell, riaperto da alcuni anni dopo un lungo restauro.

Facciata del Palau Güell.

Eusebi Güell è un nome che incontreremo spesso, venendo dall’amico, industriale, saggio e colto, nonché mecenate e committente del grande Antoni. Costruita tra il 1886 e 1890 è una delle opere dell’architetto catalano nominate dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. La facciata è molto stretta, è tutta sviluppata in altezza. Mentre varco la soglia, risuonano composizioni, canti, della figlia musicista di questa famiglia di appassionati cultori dell’arte, in tutte le sue dimensioni. E anche l’architettura è concepita per ambienti da feste e da perfetta acustica. Meno rimaneggiato di altre costruzioni, il palazzo riflette perfettamente la sintesi di concretezza pratica e innovativa e la fantasiosa visionarietà che contraddistinguono l’originalità, sempre in anticipo sui tempi, dell’autore. E la predilezione per i materiali, il lavoro artigianale, lui figlio di calderai, grate ed elementi ornamentali in ferro battuto, piegato a qualsiasi immagine onirica e naturalistica, ceramica, vetro, pietra e legno. Dovunque si posi lo sguardo si ha una sensazione di meraviglia, all’incontro tra Oriente e Occidente. Ad esempio l’alto soffitto, riccamente lavorato che, con delle lanterne, di notte, si trasformava in un cielo stellato.

 

Particolare del soffitto riccamente lavorato di Palau Güell.

Qui per la prima volta Gaudì realizzò gli archi catenari che sono un suo elemento caratteristico. Si passa da salone in salone al piano nobile, per poi visitare le camere da letto, fino alle cantine con quelle straordinarie colonne e volte. Vetrate e lampade testimoniano come la luce sia una delle basi per creare atmosfera e per quello scambio interno-esterno, tipico di Gaudì. Se poi si risale e ci si trova sul tetto e la terrazza, allora si potranno incontrare i particolari comignoli dal fascinoso cromatismo smaltato che sembrano usciti da un’immaginazione fiabesca. Di ritorno, passo per l’austera, romanica, Església de Sant Pau del Camp, che all’andata, avevo trovato ancora chiusa. Una bella facciata e un quieto chiostro, anche se sembra un po’ abbandonata a se stessa.

Església de Sant Pau del Camp.

Adesso mi è venuta fame e non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma uno dei ristoranti più rinomati si chiama Suculent, sulla Rambla di El Raval, fondato dallo chef stellato, Carles Abéllan, c’è un menù fisso di tapas e ci si può accomodare al bancone per assaggiarne, una dopo, l’altra, di tutti i tipi. Suculent di nome e di fatto.
Entro velocemente al famoso Mercat de la Boqueria, uno dei più grandi d’Europa, per farmi travolgere un attimo dai colori e dagli odori dell’immensa quantità di specialità gastronomiche, ma io cerco un altro nutrimento e perciò mi dirigo al MACBA, l’altrettanto noto museo d’arte contemporanea che troneggia abbagliante sulla Plaça dels Angels, un punto di chiassosa e movimentata (per gli skateboard) aggregazione giovanile.

Cercando di schivare un probabile investimento, raggiungo la più tranquilla e adiacente Plaça de Joan Coromines dove si trova l’interessante costruzione del Centro di Cultura Contemporanea, multimediale che sta dedicando una rassegna a Kubrick, fino al 31 marzo (se volete farci un salto, c’è tempo), tra i manifesti esposti all’aperto anche quello delle inquietanti gemelline di Shining. Ma occorre sempre fare delle scelte, privilegiare qualcosa vuol dire rinunciare a qualcosa d’altro. È la legge del turista consapevole. Quindi torno al MACBA e qui mi fermerò fino quasi alla chiusura e al tramonto. Ci sono alcune mostre temporanee e sono subito conquistata dalle sculture di Jaume Plensa, a volte imponenti, altre ad effetto di micro ingegneria, ma sempre spunti di riflessione interrogativa (fino al 22 aprile, ve la consiglio). Apre infatti l’esposizione, trent’anni di un percorso artistico che attinge tanto alla tradizione classica quanto alle avanguardie del ‘900, un punto interrogativo. Per Plensa è compito della scultura incutere perplessità, esitazione, insicurezza. Dalla fotografia del suo atelier alle figure umane di dimensione naturale, avvinghiate agli alberi che si trovano nel giardino di fianco ad una sala, anche qui esterno e interno dialogano. Lo spazio è creato dalle stesse opere, come la sonorità. Il visitatore è libero di prendere una mazza e di spingerla contro un gong per provocare la risonanza (Matter-Spirit, 2005), c’è solo l’indicazione di non farlo con troppa energia… E la goccia d’acqua di Rumor (1998) e il tintinnare metallico delle lettere appese e semoventi (Glückauf?, 2004). Fino all’assenza di suono di Silence, 2016. Naturalmente anche la visione ideologica e politica che possiamo cogliere nel confronto annullante di due città-simbolo: Dallas?… Caracas? (1997), annullante dato che le immagini ci trasmettono interni di cucine che si assomigliano dovunque, avendo tutte la stessa funzione di ambiente per la preparazione del cibo. E la provocazione moderna dell’accumulo di sfere marroni che si riferiscono all’inevitabile produzione organica dell’essere umano. Fino agli statuari volti femminili immersi nel sonno e nel sogno…
Si cambia registro con l’altra mostra che, in undici sale, espone opere della collezione del museo per ricostruire un itinerario attraverso il secolo breve, cioè il ‘900, con filmati, manifesti di propaganda, design, fumetti, dipinti, sculture, dall’esposizione internazionale del 1929 che a Barcellona, come vedremo, ha lasciato diversi retaggi, in positivo e in negativo (dal punto di vista economico fu fallimentare) alla guerra civile, all’esplorazione creativa tra arte concreta e astrattismo, al dopoguerra e agli anni ’60 con l’invadenza pubblicitaria e mediatica e i movimenti di protesta, fino all’esplosione speculativa immobiliare e nuovi modelli di configurazione urbanistica, alle ultime indagini provocatorie attorno a corpi e linguaggi, la cultura popolare, le rivendicazioni identitarie degli anni ’90 e le contestazioni ecologiste d’inizio millennio. In tutto questo si possono ammirare lavori di Calder o Tàpies, Dubuffet e Fontana o Basquiat. Naturalmente non si può evitare di entrare (uno alla volta) nella labirintica installazione di Christian Boltanski: la Riserva degli svizzeri morti (1991), costruita come una raccolta di cassette di sicurezza, forzieri-loculi, ciascuno con una fotografia di uomini o donne (recuperata anche negli obitori o attraverso diari, tutte persone scomparse), una impressionante collezione, nella sua disarmante icasticità, che non può lasciare indifferenti.
E poi, per chi non soffre di claustrofobia, segnaliamo, tra altre varie sperimentazioni robotiche, tecnologiche, di realtà aumentata ecc… un’altra, “illuminante” (detta ironicamente) esperienza. Si entra in una stanza completamente buia e all’inizio l’oscurità è paralizzante, perché non ci sono punti di riferimento, sentiamo la presenza di altre persone, ma i passi sono incerti. Ci vogliono diversi minuti perché ci si abitui e si cominci a vedere il lavoro di Ivana Franke, Verso una fenomenologia dell’ignoto (2017), punti luminosi che fluttuano nell’aria, formando traiettorie, come un cielo stellato, costellazioni, si avvicinano, si allontanano, nel più assoluto silenzio, tanto inquietante, quanto affascinante.
Esco dal Museo, all’aria aperta dopo un viaggio che mi sembra durato ben più delle ore di un pomeriggio. E per la sera, solo l’imbarazzo della scelta: balli folcloristici, l’immancabile flamenco, teatro o concerto, dalla musica classica al jazz, per chi ha ancora energie da spendere…

2 – Continua

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