Locarno Film Festival

Bergmál

Un’immagine dal film “Bergmál”.

Quanto fa 79′ diviso 56? (Calcolatrice) Fa 1,41. Ognuna delle 56 scene indipendenti che vanno a comporre Bergmál (Echo), quindi, durava poco più di un minuto e mezzo. Pochino. Ma ognuno, a suo modo – e credeteci: i modi erano tanti – riusciva a riempire di senso quel poco tempo a disposizione. Pensiamo al secondo quadro, che seguiva un’apertura sipario mistico-geometrica di alpinisti in cammino sui ghiacci: ora l’occhio della telecamera si china su un bambino morto dentro a una bara. Siamo a due passi dall’altare, e due inservienti si occupano di allestire il feretro affinché i famigliari possano rivolgere l’ultimo saluto alla vittima, non c’è musica triste. Parte tristissimo il terzo lungometraggio del giovane regista islandese Rúnar Rúnarsson, ma prosegue balzando abilmente da una grassa festa natalizia a una coda per il pasto caldo della Croce Rossa di Reykjavik; da una giocata a Monopoli ridanciana (e marijuana), a un litigio accennato fra ex adolescenti impaurite.

Di questo film parliamo ancora perché sono state programmate una discreta serie di proiezioni aggiuntive, vista la mole di pubblico che desiderava avere l’occasione di vederlo proprio qui a Locarno. E a tutti noi che in sala abbiamo avuto la fortuna di entrare è proprio parso di averlo intercettato, quel mondo tanto “in su”, al nord, lontano e vagamente strano dell’Islanda. Dove il film è ambientato. Chi c’è mai stato, in fondo, in Islanda. Sì, magari in vacanza 10 giorni, ciò che non basta a colmare il vuoto che abita la maggior parte di noi di fronte alla parola Islanda. Al di là di qualche sciocco stereotipo. Salta subito all’occhio l’urgenza di pulizia visiva e perfezione formale cui tende il regista del lungometraggio. L’estrema isola nordica è rappresentata sotto decine e decine di punti di vista che in comune hanno poco o niente: c’è la donna che “ti partorisce addosso” (la vediamo stesa su un fianco, sì, ma cambia poco, e l’emozione è vera, oltre che condivisa), c’è il nonno depresso dell’ospizio cui la nipote si rivolge fingendo normalità, e a uscirne bene è ancora l’ottuagenario. C’è la bambina triste che però col metodo Suzuki al piano è la più brava, ma forse a casa non l’abbracciano abbastanza. E c’è il papà che per celare la taccagneria (si potrà mai rifiutare l’acquisto dell’alberello di Natale a una figlia?) avanza motivi morali neanche sofisticati. Questo mosaico di eterogenea umanità concorre per il premio più ambito, gareggiando nel Concorso internazionale a Locarno 72.

E la precisione delle scelte di Rúnarsson gli consente di immobilizzare lo sguardo della cinepresa: la scena, le vicende, i personaggi, tutto quanto insomma, viene catturato da un’unica angolatura, un solitario punto di vista (quello del regista: ma in tutti i sensi, anche letteralmente, o concretamente). Virtuoso anche nei cambi di direzione il giovane islandese dietro la macchina da presa, che alterna “minuti e mezzo” in cui predominano le prospettive verticali, ad altri in cui tutto sembra stendersi in orizzontale; quadri in cui la temperatura cromatica scivola verso il verde, altri in cui predomina il viola. Anche i silenzi sono inframmezzati da fuochi d’artificio incessanti. Anche i lieti incontri d’amore sono appesi tra due scene in cui un tizio, da solo – é Natale – mangia un piatto da microonde postando compulsivo su Instagram la lasagna del discount. Parecchio piacevole è la sospensione del giudizio: nessuna situazione spiata ci ha suggerito (o preteso) un giudizio, né conteneva una presa di posizione, una provocazione, una dichiarazione di alcun tipo. L’Islanda, punto. E quel mar di Groenlandia finale che ancora rimbomba nella pancia.

Margherita Coldesina

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