Cultura

Carlo Vanzina: di benessere, volgarità e nostalgia

Il regista Carlo Vanzina.

Se ne è andato ieri, domenica 8 luglio, Carlo Vanzina, conosciuto anche come “il regista” del noto duo di fratelli, laddove il maggiore Enrico era invece il “creativo”, autore di spunti e sceneggiature.

Che il loro cinema nel corso degli anni sia assurto a simbolo di commediaccia trash all’italiana, è cosa nota. A dimostrarlo ci sono titoli che nemmeno oggi potrebbero essere classificati altrimenti. Come quell’S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa (1994) che, a suon di hit discotecare e battute scollacciate, proponeva una versione pecoreccia della storia romana, filtrata dalle tendenze più triviali e misogine degli anni Novanta. Eppure, la filmografia dei Vanzina è talmente eterogenea e composita, e capace di rinascere dalle macerie di ogni nuova Repubblica italiana, da essere oggetto, proprio ora – beffarda ironia della sorte – di una diffusa rilettura critica. Lo stesso Carlo, d’altronde, era ben consapevole di quanto uno stigma giornalistico potesse ancora pesare, nell’Italia di qualche decennio fa: “Ci hanno confinati in serie B per anni, ne abbiamo sofferto, poi finalmente siamo stati sdoganati: abbiamo contribuito a fissare per sempre l’immagine di una certa società italiana, lo capì per primo il critico di Repubblica Paolo D’Agostini. Ma chi ha ridicolizzato gli yuppies, quei quattro zozzoni che litigavano al ristorante al momento del conto? E i nobili, le finte bionde, la mania della palestra, i circoli come sedi di affari?”. Basta scorrere la produzione vanziniana – da Yuppies-I giovani di successo (1986) a Via Montenapoleone (1987), da Vacanze di Natale (1983), fondatore suo malgrado di un genere, a South Kensington (2001) – per rendersi conto di quanto la loro galleria di “nuovi mostri” abbia saputo fotografare i cambiamenti in atto nella società italiana, spesso meglio di quel cinema impegnato che solo nel racconto del disagio trovava la propria ragion d’essere.

Jerry Calà e Guido Nicheli in “Vacanze di Natale”.

Restii a compiacere qualsivoglia intellighenzia salottiera, i Vanzina hanno accettato il posto assegnato loro dalla critica e dai festival, continuando a raccontare la comicità involontaria, disturbante e sgradevole di soggetti sociali benestanti e dominanti, a cui solo raramente riuscivano a opporre outsider come l’Abatantuono di Eccezzziunale… veramente (1982). Ricchi per nascita o grazie a circostanze storiche favorevoli, i loro personaggi riflettevano già negli anni Ottanta il declino di ideali e ideologie politiche, il cinismo soverchiante dei nuovi potenti, il privilegio come maschera delle proprie debolezze. Ereditando almeno in parte la lezione del padre Steno e di quei maestri della commedia all’italiana – da Mario Monicelli (mentore effettivo di Carlo) a Dino Risi – che proprio nella caricatura deformante avevano trovato la chiave per dipingere l’Italia del miracolo economico.

Mentre in queste ore piovono i coccodrilli volti a riabilitare una carriera sino a ieri invisa a molti, vale forse la pena partire, come in uno dei film vacanzieri di Carlo Vanzina, per un altro luogo e un’altra epoca. Magari proprio in quegli anni Sessanta che in Sapore di mare (1983) e in molti altri capitoli vanziniani vengono rievocati come un fantasma sbiadito. Un’epoca d’oro irripetibile, non solo per il senso di speranza che li innervava, ma soprattutto per la capacità del cinema italiano di coniugare commedia e tragedia, arte e intrattenimento, critica e pubblico. Un risultato che Carlo, forse, sapeva di non poter raggiungere. Ma a cui tendeva costantemente, attraverso il velo malinconico della nostalgia.

Francesca Monti

“Sapore di mare”.

 

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