Recensione

Chiesa in missione – Tra la pentecoste e la parusia

Ha ancora un senso? Cioè, serve ancora la missione quando i lontani sono ormai vicini nelle nostre città, nelle nostre piazze, nelle nostre case e i preti neppure bastano alle diocesi tanto che, quasi quasi, siamo noi terra di missione? Di più, è ancora necessaria una missione che sia annuncio evangelico e non soltanto promozione umana? Sono interrogativi che pesano, nel dibattito ecclesiale contemporaneo e dopo un ottobre che i cattolici considerano “mese missionario”. Trovano analisi puntuale e risposta brillante in un volumetto di monsignor Antonio Mattiazzo, per trent’anni vescovo di Padova e ora, con il titolo di emerito, missionario in Etiopia: Chiesa in missione. Tra la pentecoste e la parusia (Edizioni Messaggero Padova). In un centinaio di pagine, l’autore centra la questione principale, coglie il nodo centrale, illumina il problema effettivo dell’odierna teoria e pratica missionaria. Sente, insomma, e rivela il peso di un “andare” che non si annulli nella fisicità e mantenga una vocazione metafisica, di un “aprirsi” che non sia perdere l’identità cristiana, di un “confrontarsi” che non sia tralasciare, abbandonare la specificità del viaggio. Va bene occuparsi i pozzi, scuole, ospedali: senza vergognarsi della croce, però; senza nascondere l’anima, senza snaturare l’idealità. Per questo Mattiazzo colloca la missione della Chiesa (piuttosto originalmente, va sottolineato, per quanto sulla scia del Vaticano II e di alcuni studiosi) nell’orizzonte escatologico. Ammette l’evidenza di una crisi missionaria probabilmente senza precedenti nella storia ecclesiastica: crisi di numeri e convinzioni, di obiettivi e risultati, di braccia e portafogli. Avverte al tempo stesso e indica l’attualità, addirittura l’urgenza delle missioni. Ritenendone anacronistica la teoria, si esaurisce anche la prassi; invece andrebbe riconsiderata, riscoperta. Il testo sarebbe opportunamente diffuso e letto all’interno di realtà religiose e civili disinvoltamente turbate da urgenze locali, da faccende migratorie che incombono sui territori, e in questo senso autoreferenziali, dunque spesso incapaci di vedere, valutare, progettare soluzioni che non si esauriscano nell’emergenza, nei confini dei Comuni o delle Province, nelle dialettiche dell’accoglienza e convivenza e integrazione nazionali, ma con lo sguardo alzato ai paesi di partenza, ai paesi di provenienza, all’origine dei flussi. Se ha ancora un valore, un significato portare, esportare, annunciare ad gentes la cultura, la fede, la tradizione cristiana senza rinchiudersi in sacrestia, senza vivere agiati soltanto una parrocchia, senza limitarsi a conoscere e affrontare difficoltà da piccolo sagrato, sta in quest’ottica multidimensionale, nella consapevolezza che è indispensabile partire per aiutare ed evangelizzare là. Oggi – con trasferte facilitate, collegamenti spianati, comunicazioni agevoli – molto più che in passato. Certo non per annettere o per conquistare ma, come diceva don Tonino Bello nell’ottobre di trent’anni fa, per “pasqualizzare” il mondo.

Léon Bertoletti

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