Commento

Contro il clientelismo, il capitalismo occidentale alla prova

Il sistema economico occidentale e il capitalismo liberale si trovano oggi a un bivio cruciale che determinerà il futuro della prosperità e della libertà nelle nostre società. Quello che dalla fine della Guerra Fredda rappresentava il trionfo del libero mercato e della cosiddetta meritocrazia – il motore che ha sollevato miliardi di persone dalla povertà e ha generato un benessere senza precedenti nella storia umana – rischia di trasformarsi in una forma distorta e perversa di capitalismo clientelare. Un questo sistema degenerato per cui pochi privilegiati manipolano le regole del gioco a proprio vantaggio, trasformando quella che dovrebbe essere una competizione leale in un “teatro dell’assurdo” dove vincono non i migliori, ma i più collegati. Questa trasformazione non è solo un problema strettamente economico, ma rappresenta una minaccia esistenziale alla stessa coesione sociale e alla democrazia liberale. Non a caso, va spesso a braccetto con regimi corrotti e tendenti all’autoritarismo.

Anzitutto, il capitalismo liberale ha dimostrato nel corso della Storia di possedere virtù uniche che lo rendono il sistema economico-sociale più efficace per la creazione di ricchezza e progresso sociale mai concepito dall’uomo. Nel libero mercato, la domanda e l’offerta determinano prezzi e allocazione delle risorse in modo spontaneo e non coercitivo, permettendo alle migliori idee di emergere attraverso la competizione – dalla parte dell’offerta – e alle preferenze individuali – parte della domanda – di essere soddisfatte. Per altro, senza coercizione. Con tutti i suoi limiti, l’efficienza allocativa del mercato libero rappresenta un miracolo economico quotidiano. Non solo un atto di fiducia nei confronti del vicino, ma la fede verso una direzione decentralizzata e automatica di risorse verso gli usi più produttivi, senza bisogno di pianificazione o di burocrati onniscienti, consentendo di massimizzare il benessere collettivo attraverso la somma di decisioni individuali razionali. Se vogliamo, ogni acquisto è un voto, una decisione.

Ogni investimento è una scommessa sul futuro; ogni scelta imprenditoriale è un esperimento che contribuisce al progresso collettivo. La mobilità sociale è un pilastro prezioso del capitalismo liberale. Per cui, il sistema crea ricchezza diffusa, seppur naturalmente diseguale – specchio delle differenze tra gli agenti economici –, offrendo in teoria un ascensore sociale funzionante dove chi ha talento e determinazione può migliorare la propria condizione. E ciò indipendentemente dalle origini o dalla classe sociale. Questo principio individualista è stato rivoluzionario nella storia umana. Oggi non ci si fa più tanto caso, ma con l’introduzione del capitalismo liberale, per la prima volta nella Storia, il successo non dipendeva dalla nascita, dal sangue blu o dall’appartenenza a caste. Ma dal valore che si è capaci di creare per gli altri. Sono gli altri, nel sistema concorrenziale che determinano l’offerta sul mercato.

La concorrenza spinge verso l’innovazione tecnologica e organizzativa (mai centralizzata), generando un progresso che beneficia l’intera società in modo esponenziale. Le imprese devono continuamente migliorare prodotti e servizi per sopravvivere sul mercato, innescando una corsa virtuosa verso l’eccellenza che ha prodotto tutti i miracoli tecnologici della modernità. In tutto questo, il consumatore mantiene la sua sovranità di scelta. Le aziende devono soddisfare i bisogni reali delle persone per avere successo, creando un circolo virtuoso tra produzione e soddisfazione dei bisogni che si autoregola attraverso il meccanismo dei prezzi. Un sistema non perfetto – dal momento che il libero mercato è nemico della perfezione – che però assicura maggiore trasparenza – e libertà – rispetto al mercato chiuso e coercitivo. La decentralizzazione del potere garantisce che nessun singolo possa controllare completamente il mercato, distribuendo il potere economico tra molteplici soggetti concorrenti che si bilanciano reciprocamente.

Di converso, il capitalismo clientelare rappresenta la degenerazione e la perversione del sistema di mercato. Una forma di parassitismo economico dove una piccola élite si arricchisce grazie a scambi di favori e mercati protetti da regole scritte su misura per favorire gli amici del potere. In questo sistema distorto, solo pochi si arricchiscono davvero, mentre la maggioranza subisce le conseguenze di un gioco truccato. Il potere economico si traduce automaticamente in potere politico attraverso meccanismi di cattura regolatoria, creando un circolo vizioso che si autoalimenta e autoprotegge. I ricchi diventano sempre più ricchi non perché creano valore, ma perché sanno come manipolare il sistema a proprio vantaggio. E i poveri rimangono consumatori poveri perché le regole sono scritte per escluderli. Quando l’ascensore sociale si blocca e prevale la logica clientelare, si diffonde un clima di invidia e rancore che mina la coesione.

L’obiettivo dell’élite dominante diventa quello di proteggere il proprio potere economico e politico attraverso la creazione di barriere all’ingresso artificiali che proteggono posizioni di rendita e impediscono la competizione. Le licenze, le autorizzazioni, le normative labirintiche, i vincoli burocratici diventano strumenti di esclusione che favoriscono chi ha i mezzi per navigare il sistema e scoraggiano chi vorrebbe innovare e competere. La concorrenza viene sistematicamente distorta attraverso sussidi selettivi, agevolazioni fiscali mirate, appalti truccati. Nel capitalismo clientelare sopravvive solo chi ha agganci o salvaguardie, non necessariamente chi offre il miglior prodotto o servizio. Anzi, spesso accade l’opposto. I più inefficienti vengono premiati proprio perché la loro inefficienza li rende dipendenti dal sistema di protezioni e indispensabili sul mercato. Il sistema diventa strutturalmente corrotto. Il successo dipende sempre più dalle relazioni personali che dal merito o dalla capacità di soddisfare i bisogni del mercato.

Si premia sistematicamente l’incompetenza quando questa è accompagnata da fedeltà politica o da connessioni, mentre si penalizza la competenza quando questa minaccia equilibri consolidati. Proteggendo i meno efficienti attraverso regolamentazioni ad hoc, il sistema diventa meno produttivo e innovativo, perdendo competitività sui mercati globali e condannando l’intera società al declino economico. La corruzione è l’essenza stessa del capitalismo clientelare. Corruzione delle regole, corruzione dei processi decisionali, corruzione dei criteri di valutazione, corruzione del tessuto sociale. Ne deriva che i cittadini perdono fiducia nelle istituzioni e nel sistema economico. Questo è percepito come ingiusto e truccato. E genera una spirale di cinismo e disimpegno che indebolisce la società civile. Quando gli individui smettono di credere che l’impegno e il talento possano essere premiati, smettono di impegnarsi e di investire nel proprio futuro. Una sorta di profezia che si auto-avvera. I danni su scala nazionale sono incalcolabili.

Il capitalismo clientelare non produce inefficienza economica e degrado morale e sociale. Insegna che conta più chi conosci di quello che sai fare. Che è meglio investire in relazioni politiche che in ricerca e sviluppo. Che la furbizia vale più dell’onestà e che la raccomandazione vale più del merito. I segnali di allarme sono già visibili nelle nostre democrazie liberali. E dovrebbero far suonare tutte le sirene d’allarme in una società che tiene alla propria libertà e prosperità. La crescente concentrazione della ricchezza in poche mani non attraverso la creazione di valore ma attraverso la cattura di rendite, l’influenza sproporzionata di lobby che scrivono de facto le leggi, la creazione di barriere normative che favoriscono i grandi player a discapito dei piccoli e la crescente collusione tra potere economico e politico che trasforma la democrazia in una plutocrazia. Tutto ciò non è libero mercato, ma ne è una perversione.

Invertire la rotta intrapresa verso la normalizzazione di un capitalismo clientelare – ovvero antiliberale – conviene per ragioni che vanno molto oltre la semplice efficienza economica. Un sistema basato sulla concorrenza leale garantisce maggiore giustizia sociale e anche allocazione delle risorse, rendo il consumatore-individuo veramente sovrano. Di più, nell’era della rincorsa tecnologica, stimola l’innovazione perché costringe tutti a migliorare continuamente per sopravvivere. E mantiene viva la speranza di miglioramento per tutti i cittadini(-consumatori). Con buona pace degli anticapitalisti ideologici, il capitalismo liberale è intrinsecamente democratico perché distribuisce il potere economico tra molti attori invece di concentrarlo in poche mani (come fa il modello collettivista socialista coercitivo, più vicino al capitalismo clientelare, classista e oligarchico). Sottomette tutti, ricchi e poveri, alle stesse regole del mercato. Il capitalismo clientelare non è economicamente inefficiente. È socialmente distruttivo e politicamente pericoloso perché mina le basi stesse della democrazia liberale.

Certo, il libero mercato produce diseguaglianze. Che sono spesso il prezzo da pagare per un sistema che nel complesso eleva il tenore di vita di tutti. Le diseguaglianze del capitalismo autentico sono dinamiche inevitabili e frutto della diversità, non del valore, dei consumatori. Al contrario, il capitalismo clientelare produce diseguaglianze statiche, blocca la mobilità sociale e crea una società di caste moderne estrattive – dove per altro, la posizione sociale si tramanda di generazione in generazione. E senza merito, ma per appartenenza, agganci. Una delle sfide per le democrazie occidentali è quella di riformare il sistema per riportarlo ai principi del libero mercato liberale, combattendo chi falsifica le regole del gioco. Questo significa deregolamentare settori sovra regolamentati, spezzare monopoli e oligopoli protetti, eliminare sussidi a pioggia e agevolazioni selettive. Ma anche semplificare la burocrazia, rendere trasparenti i processi decisionali pubblici e ripristinare una cultura della “talentocrazia”.

Amedeo Gasparini

In cima