Cultura

Dalla Toscana all’Africa nel sabato pomeriggio di Arzo

La bimba che aspetta

Prende lo spunto da una statua il racconto con accompagnamento musicale (violino e chitarra di Matteo Ceramelli) e ninna nanne popolari cantate dall’attrice e autrice del testo Elisabetta Salvatori, ma come un film d’altri tempi parte da un’ampia panoramica per poi avvicinarsi sempre più al microcosmo centrale della storia. Qui s’inizia addirittura dalla creazione che, in tutti i miti, parla di un impasto da cui scaturisce l’uomo. Un impasto da modellare, come nella scultura e allora ecco che la narrazione ci porta poi nelle cave di marmo toscane ed è stato un vero peccato che lo spettacolo non si sia svolto nelle nostre cave, vista l’affinità tematica, ma nella palestra delle scuole. La voce microfonata e l’acustica non ideale però non hanno impedito di apprezzare la struggente vicenda.

Elisabetta Salvatori.

Si entra in questo mondo di lavoratori, se ne descrive l’operosità, ciascuno con un suo compito, il trasporto delle lastre con i barrocci, gli strumenti e l’ingegno. Poi ecco uno dei due personaggi, lo scultore Ferdinando Marchetti di cui si traccia una minima biografia per poi concentrarsi sull’altra figura della vicenda, il committente Barsanti, la sua famiglia, l’amore per la moglie Clorinda, i suoi sei figli di cui uno deceduto in tenera età ed anche la sposa muore a seguito di una caduta dalla bicicletta che il marito stesso le aveva regalato… Paolina sarà l’ultima a vederla e, come le era stato ordinato, esce dalla stanza, si siede sugli scalini ad aspettare che la mamma passi con gli angeli che la porteranno in cielo. Il marito affranto chiederà proprio al Marchetti di scolpire la statua per la tomba e sarà proprio Paolina il soggetto, ritratta in quell’attesa malinconica, seduta sugli scalini… la bambina di sei anni sarà una modella perfetta, immobile e silenziosa. Non si parleranno mai, i due, artista e soggetto e, quando l’opera sarà finita, non si rivedranno più. Ma quella statua delicata nel cimitero di Viareggio attira l’attenzione della gente che andrà a vederla, a salutarla, in ogni occasione… su di lei si scriveranno poesie, entrerà nella leggenda. Questa bianca bambina di marmo, che aspetta seduta sugli scalini, è consegnata all’eternità. Una delle ultime immagini offerte è quella di una Paolina anziana che, tornata a Viareggio, va a rivedere la se stessa bambina. Mentre dello scultore nessuno saprà più nulla. Una storia applauditissima che ha commosso e coinvolto, per la leggerezza e lo spessore insieme, privato e pubblico, sociale e familiare, raffinato e popolare, specchiato in parole lievemente toscaneggianti di incisiva e poetica efficacia descrittiva.

 

Thioro. Un cappuccetto rosso senegalese

Trascinante Thioro con i tre scatenati interpreti, tamburi, sassofono, danze, una platea di bambini intorno, a creare, pur nella Palestra, una piazza del villaggio dove narrare una fiaba occidentale declinata alla maniera africana. Un villaggio ancora rurale dove si va a dorso d’asino, ma con scuola e assemblea politica. Sono in tre, il musicista bianco, Andrea Carella, Adama Gueye, che con la sua straordinaria fisicità fa tutte le parti e Fallou Diop, nel ruolo del clown saggio, ragionatore che stuzzica e riporta all’ordine.

Dopo l’introduzione in cui s’ironizza sulle incomprensioni linguistiche, ecco descritta una ragazzina dei nostri giorni con tante magliette colorate, atteggiamenti universali e una mamma che si raccomanda. Un Cappuccetto rosso senegalese con molti contrasti surreali, capelli biondi o verdi, bella e brutta, buona e cattiva… ma al posto del bosco la vasta savana dove abita la nonna e al posto del lupo un’ancora più famelica iena che Adama interpreta benissimo, spaventando anche qualche bimbo troppo piccolo (quando impareranno i genitori? Se è dai sei anni non è per quattro o tre!). E si procede canonicamente, un rossetto sulle labbra e la nonna-iena si mangia anche la bambina, fino alla liberazione finale e all’invito alla partecipazione di tutti i piccoli. Un’occasione per far festa. Ma l’innaturale rigidezza dei nostri bambini stona evidentemente. Abbiamo da imparare, come dalla frase “Quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca” che ci ricorda il valore della vecchiaia, là dove si sa ancora raccontare.

Alla Corte dei Miracoli

Con un documentario e la partecipazione di artisti, successivamente, alla Corte dei Miracoli, adibita alle riflessioni e dibattiti, è stato spiegato come è nato questo progetto, una coproduzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Accademia Perduta/Romagna Teatri, Ker Théâtre Mandiaye N’Diaye. La storia del Teatro delle Albe, in Romagna, è legata alla problematica della migrazione e della creatività meticcia, avendo realizzato un sodalizio con il Senegal. Una collaborazione nata sull’onda degli africani giunti in Italia e, in questo caso, coinvolti artisticamente in uno scambio e fusione di tradizioni e culture, le cui differenze diventano un arricchimento. L’avventura è iniziata, con ottima intuizione, nel 1988, con personaggi come Mandiaye N’Diaye che si è spacciato per griot, ma gli è andata bene. Poi, quando i senegalesi hanno cominciato a sentire nostalgia e a voler tornare a casa, il progetto si è sviluppato anche lì, dove almeno nei villaggi resta forte la trasmissione orale, all’insegna di tre t, ha spiegato Moussa Ndiaye, terra, teatro, turismo…

Qualche appunto

Arzo è sempre un bagno di folla, ma dobbiamo registrare qualche mugugno per le informazioni non troppo chiare, la difficoltà a trovare l’assegnazione dei luoghi (si ha nostalgia del libretto), per la confusione che crea un abbonamento chiamato “giornaliero”, che però esclude la mattina. E, aggiungiamo, per il poco coraggio meteorologico: non ha piovuto affatto e sono stati inutilmente penalizzati gli spettacoli relegati in Palestra.

Manuela Camponovo

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