Commento

Dalla Val Bregaglia a Parigi, con le lettere di Giacometti

È una raccolta di lettere pregiata Il tempo passa troppo presto (Edizioni Casagrande 2024) di Alberto Giacometti. Curata da Casimiro Di Crescenzo – uno dei massimi giacomettologi contemporanei – nella prefazione della Fondazione Alberto Giacometti di Zurigo si evince che l’abitudine epistolare era stata trasmessa da padre, il pittore post-impressionista Giovanni Giacometti. Ma pure la madre, Annetta Stampa, avrebbe continuato questo rapporto con i figli fino alla morte. Stupisce, anzitutto, il tono delle lettere di Giacometti. Un italiano rurale, al quale non si è abituati – il Nostro era nato a Borgonovo, in Bregaglia, nel Canton Grigioni. Le inflessioni montagnarde e dialettali sono comprensibili e rivelano un mondo ed un’epoca che non ci sono più. Alberto Giacometti aveva una vena letteraria: scrisse in tutta la sua vita circa millecinquecento lettere. Bruno Giacometti, fratello scomparso a 105 anni, ha scelto sessantotto lettere e ne ha fatto dono alla Fondazione, che ha pubblicato il volume.

Le lettere di Giacometti sono la maggiore fonte primarie sulla vita dello scultore. Il volume ne raccoglie 91 dal 1916 al 1964. Si parte dalla biografia. L’artista Cuno Amiet è stato il suo padrino di battesimo, mentre Ferdinand Hodler, il più importante pittore elvetico del secolo scorso, lo è stato per Bruno. A Stampa, Giacometti passò un’infanzia felice. Dei quattro fratelli, era l’unico a dimostrare sin da bambino un talento artistico, ricorda Di Crescenzo nell’introduzione. I genitori erano sempre pronti a dare consigli e suggerimenti per le scelte importanti. Ma poi lasciano ai figli la decisione finale e la libertà di seguire le proprie idee. Le lettere sono divise in periodi e sono scritte a mano, di getto. Infatti, l’autore si scusa a più riprese per la calligrafia e la fretta con cui comunica ai genitori le sue attività giornaliere – «ho dovuto fare svelto!» (19 marzo 1917).

Le lettere, infatti, le scriveva nei momenti di pausa dai lavori, la sera tardi, nei caffè o nell’atelier. Sono per lo più in italiano; alcune in francese. Nel volume sono riprodotte alcune lettere originali a matita e con disegni dei progetti. Ma anche una sezione fotografia con alcune opere dello scultore. Giacometti si rallegrava di poter riscrivere alla famiglia. Tenero con i genitori, riservava un saluto alla numerosa famiglia in valle – “Salutate a Capolago” (13 settembre 1917) è una espressione che ricorre spesso nella corrispondenza per esprimere un saluto generale ad amici e parenti a Capolago, come Maloja e l’altopiano engadinese. «Il tempo è corto e il giorno dovrebbe essere per lo meno il doppio più lungo per arrivare dappertutto» (16 gennaio 1921). Si inizia dalle lettere da Schiers (1916-1917), nei pressi di Coira, dove frequentò la scuola evangelica.

Apprezzava le rigide regole del collegio – al contrario del fratello Diego Giacometti, che poi lo seguirà a Parigi e fu sempre il suo assistente. Le lettere da Schiers sono velate da nostalgia, ma nel complesso, «la vita va abbastanza allegra e alla leggera!» (31 ottobre 1916). Lo studente raccontava anche delle sue escursioni, tra cui a Vaduz – «quei poveri abitati del Lichtenstein patiscono la fame» (31 maggio 1917) – e Bad Ragaz. Giacometti decise poi di congedarsi da Schiers e prese una pausa di tre mesi. Giovanni gli suggerì la Scuola delle Belle Arti di Ginevra, dove lavoravano alcuni amici – James Vibert e David Estoppey. Nel settembre 1919 Alberto andò a Ginevra. Ma non gli piacquero né l’insegnamento né la città. S’iscrisse quindi alla Scuola d’Arti e Mestieri. Poi tornò a Stampa. Il padre lo portò con sé a Venezia, dove ricevette un incarico dalla Commissione Federale delle Belle Arti.

Qui Alberto si innamorò del Tintoretto e di Giotto. Diego, nel frattempo, studiava tra Basilea e San Gallo, mentre Bruno si laureò in architettura a Zurigo. La sorella Ottilia Giacometti era invece la tipica ragazza di buona famiglia; collegio femminile vicino a Zurigo, poi Berna e Losanna. Da Firenze, Roma, Napoli e Stampa (1920-1921). Apprezzò Assisi – «una piccola città, meglio è nominarla un villaggio su una collina sopra una bella pianura fertile con grandi strade bianche» (22 dicembre 1920) e Perugia – «una città meravigliosa» (ibid.). Nel 1920 andò a Roma, ospite di Antonio Giacometti ed Evelina Stampa, entrambi cugini dei genitori. Qui Alberto visitò i Musei vaticani e apprezzò l’arte egizia. Andò anche all’opera a vedere “Salomè” di Richard Strauss e fece considerazioni stilistiche – «il Monumento Vittorio Emanuele deve diventare una mostruosità quando sarà finito» (18 febbraio 1921). Lesse Benedetto Croce sull’estetica – «scritto molto o abbastanza difficile» (6 dicembre 1921).

Nel volume ci sono pochissime considerazioni politiche. «Una domenica ho visto una dimostrazione fascista, era grandiosa fa venire i brividi migliaia e migliaia di persone così unite compatte. Naturalmente con i miei amici e conoscenti difendo il più possibile bolscevismo e socialismo» (18 aprile 1921). Breve visita a Napoli, Paestum e Pompei. «È ancora molto più bello di quello che mi immaginavo! È una vita e una natura meravigliosa. Credevo di trovarmi in una grande città moderna piena di movimento febbrile invece, tutto ha il carattere di una piccola città» (1° aprile 1921). Visita a Versailles (palazzo del Trianon) e Chartres (alla cattedrale gotica). Da Basilea, Parigi e Hyères (1922-1932). Il padre gli suggerì di recarsi a Parigi per seguire il corso di scultura di Émile-Antoine Bourdelle all’Académie de la Grande Chaumière, dove arrivò il 9 gennaio 1922. Bourdelle notò e apprezzò sin da subito le qualità di Alberto.

Il 1925 è stato un anno importante per la vita del giovane scultore, che iniziò a Montparnasse, dove affittò un atelier al 37 di Rue Froidevaux, mentre dal dicembre 1926 s’installò al 46 di Rue Hippolyte-Maindron. «A Parigi, del resto, c’è poco di nuovo. Tutti i momenti è sera. Vediamo sempre i soliti amici che vanno e vengono» (1° aprile 1926). «Col mio lavoro va sempre abbastanza bene», scrisse il giorno dopo. Sono gli anni delle esposizioni, tra cui al Salon des Tuileries. In questo periodo frequentò le gallerie d’arte private e rimase affascinato dalle avanguardie di Pablo Picasso. Si avvicinò al post-cubismo e a Constantin Brâncuși – «che è già uno sculture più vecchio ha la barba bianca» (28 aprile 1927), Ossip Zadkine e Jacques Lipchitz, così come André Masson e Henri Laurens. Instaurò amicizie con i surrealisti dissidenti, tra cui Massimo Campigli e André Breton.

La corrispondenza con la famiglia in questo periodo rivela sentimenti contrastanti tra la soddisfazione per il lavoro e la frustrazione per la mancanza di acquirenti. In compenso, approcciò Samuel Beckett, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Man Ray. Da Hyères scrisse: «Lavoriamo tutti i giorni e non andiamo mai via ma alla fine della settimana si è però un po’ stanchi» (19 giugno 1932). Nel 1933 morì il padre. Da Parigi e Ginevra (1936-1945) tratta il capitolo sull’amicizia con Pierre Matisse, figlio di Henri Matisse, mercante d’arte che si trasferì a New York, dove aprì la Gallerie omonima nel 1931. Nelle corrispondenze entrarono anche Tristan Tzara, poeta e saggista romeno di lingua francese, uno dei fondatori del movimento dadaista; dunque, Max Ernst, pittore e scultore tedesco naturalizzato francese, che nell’estate 1935 aveva soggiornato a Maloggia dai Giacometti. Fino al 1938 Alberto continuò a fare e disfare le stesse teste.

Poi sentì che è ora di cambiare. Allo scoppio della guerra – esonerato dal servizio militare – decise di scappare in bicicletta nel Sud della Francia al momento dell’invasione nazista. Poi fu costretto a tornare a Parigi. Il 31 dicembre 1941 prese il treno per Ginevra per andare a trovare la madre, mentre Diego rimase a Parigi a sorvegliare l’atelier. Alloggiò all’Hotel de Rive; la stanza diventò il suo atelier, dove continuò creare sculture. Pensava di starci tra i due e i tre mesi, ma l’annullamento dei visti di ingresso e di uscita delle autorità francesi lo obbligarono a restare a Ginevra fino alla fine della guerra. Cornelio Giacometti, cugino di Alberto e Diego, abitava a Marsiglia e fece da tramite. Il 17 settembre 1945 Alberto lasciò Ginevra e ritornò a Parigi. A Parigi arrivò con Annette Arm, che conobbe a Ginevra nel 1943 e sposò nel luglio 1949.

Da Parigi (1946-1949): «Dormo poco, mi abituo a ciò e poi tutta la notte sogno di continuare a disegnare o fare scultura. Continuo in sogno, notte per notte ciò che faccio di giorno» (29 maggio 1946). Visita in Borgogna, all’abbazia di Vézelay, ospite di Georges Bataille. Pure in vacanza Alberto scrive: «Sono impaziente di pitturare è quello che farò quest’estate a Maloggia» (26 giugno 1946). Il successo di Alberto Giacometti fu sorprendente. Cristallizzato da Sartre che nell’articolo “La recherche de l’Absolu” in Le Temps modernes (1948) fece una prefazione ad un catalogo. Ma anche da Breton su Le Figaro littéraire, dove elogiò le culture per la sua capacità di sintetizzare le preoccupazioni nella scultura (1946). La preoccupazione per il lavoro era sempre presente. «Lavoro di nuovo un po’ più di ogni giorno e ho 10 o 12 cose per mano ma che voglio finire presto» (13 marzo 1948).

Esposizioni ad Amsterdam; successo a Philadelphia. Poi l’ultimo capitolo, da Parigi e Londra (1953-1964). La madre morì il 25 gennaio 1964. Il che segnò anche la fine delle corrispondenze scritte di Alberto. Infatti, negli ultimi due anni di vita dello scultore – che scomparve a Coira l’11 gennaio 1966 – sono sempre più rare. Con il fratello Bruno, infatti, avrebbe usato sempre di più il telefono per comunicare. Seguì il cambiamento dalla Quarta alla Quinta Repubblica francese e accennò a proposito della relazione sentimentale con Marlene Dietrich (20 dicembre 1959). «Ho trovato gente molto impressionati dall’esposizione e ricevo lettere nel medesimo senso. Mai non mi aspettavo a un simile successo […] Guadagni più di 800.000 Franchi svizzeri!! […]. Che mi succeda una cosa simile è curioso, giovine pensavo di non arrivare mai a guadagnare la mia vita!» (5 giugno 1961).

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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