Riflessione

Francesco: papa del popolo, papa dei poveri

13 marzo 2013: Papa Francesco saluta i fedeli dal balcone di San Pietro dopo l’elezione

13 marzo 2013: Papa Francesco saluta i fedeli dal balcone di San Pietro dopo l’elezione (Fonte: RSI)

Il primo viaggio dopo la sua elezione, papa Francesco lo fece a Lampedusa, per onorare e commemorare tra le acque del Mediterraneo – il più grande cimitero del mondo – i migranti morti nei naufragi. L’ultima uscita fuori dal Vaticano, pochi giorni prima di Pasqua, fu a Regina Coeli, dove volle incontrare i carcerati anche senza poter parlare loro a causa della malattia. È tutto racchiuso tra questi due avvenimenti il suo pontificato, iniziato il 13 marzo di dodici anni fa, scegliendo con grande sorpresa il nome di Francesco, in onore del santo di Assisi «uomo della povertà, uomo della pace, uomo del rispetto del Creato». Gli emigranti, i carcerati, i poveri. Ma anche le vittime delle guerre e della violenza, degli abusi e dello “scarto”, di coloro che subiscono le conseguenze della razzia dei frutti della terra. La povera gente, come l’avrebbe definita Giorgio La Pira, è sempre stata al centro del suo pensiero e delle sue preoccupazioni. Lo si può vedere quando si percorre il colonnato di San Pietro, cosparso di tende da campeggio da lui regalate, abitate da senzatetto che si riparano dal freddo e si lavano nelle docce sotto le finestre del Palazzo apostolico. Una Chiesa povera per i poveri: questo il suo sogno.

Il 21 aprile, è morto «tornando alla casa del Padre» dopo aver vissuto pienamente la sua Pasqua. Lasciandoci con quella sua ultima benedizione Urbi et orbi solo sussurrata, rivolta al mondo intero e a ciascuno di noi. Un papa che ha saputo parlare a tutti, rendendosi comprensibile a tutti. Prima di lui, Benedetto XVI – altro grande papa con caratteristiche del tutto diverse – parlava piuttosto rivolgendosi ai credenti, e molti per questo lo sentivano più lontano. Paradossalmente (ma neanche tanto…) Francesco era invece ascoltato, letto e seguito più da coloro che sono lontani dalla Chiesa e dalla fede piuttosto che dai cattolici “praticanti”. I suoi testi, le sue encicliche (in particolare la Laudato si’ e la Fratelli tutti) sono state commentate, approfondite e apprezzate soprattutto da coloro che si dichiaravano “non credenti”: persone non certo abituate a leggere i lunghi e spesso difficili documenti del magistero della Chiesa. Francesco usava invece un linguaggio semplice, con riferimenti concreti e aneddoti che sembravano parabole. Un linguaggio che altro non era se non il Vangelo stesso.

È stata una voce di pace che gridava nel deserto. Inascoltata, chiedeva che si fermassero le guerre, le tante guerre che insanguinano i popoli sterminando centinaia di migliaia di innocenti. Oltre trecento i suoi interventi contro questa «terza guerra mondiale a pezzi». Chiedeva – lui solo, tra tanti potenti – di «disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra». Chiedeva – lui solo, nel silenzio dei mass media – di porre fine alle guerre in Sudan e Myanmar, Congo e Sud Sudan, Armenia e Azerbaigian dove, come in Ucraina, Libano, Palestina e Israele, muoiono bambini e donne a migliaia, senza che neppure ce ne accorgiamo perché nessuno ne scrive e ne parla.

8 luglio 2013: A Lampedusa Papa Francesco lancia una corona di fiori alla Madonna del Mare

8 luglio 2013: A Lampedusa Papa Francesco lancia una corona di fiori alla Madonna del Mare (Fonte: Tag24.it)

L’ultimo suo pensiero, nel giorno di Pasqua dal balcone delle benedizioni, è un’implorazione accorata: «Nessuna pace è possibile senza disarmo.», ha affermato, «Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui». Chiedendo di liberare durante il Giubileo i prigionieri di guerra e quelli politici, si è appellato al principio di umanità: «Davanti alla crudeltà di conflitti che coinvolgono civili inermi, attaccano scuole e ospedali e operatori umanitari, non possiamo permetterci di dimenticare che non vengono colpiti bersagli, ma persone con un’anima e una dignità».

Ricordo perfettamente la sensazione provata quando, in quella serata primaverile del 2013, venne annunciata la nomina di Jorge Mario Bergoglio. Si presentò al balcone salutando, chiedendo al popolo romano di pregare per il suo nuovo vescovo, benedicendo la folla. “È come una folata d’aria fresca – pensai – è come se si fossero di colpo spalancate le finestre della Chiesa”. Una sensazione che è proseguita negli anni e a quelle finestre seguirono aperture di porte e portoni.

Nessuna di quelle porte aperte da Francesco potrà ora essere richiusa. In alcuni casi si è trattato solo di spiragli; in altri di porte spalancate. È da sempre il ruolo di chi guida la Chiesa: non mettere in atto rivoluzioni, ma offrire alla Chiesa stessa l’indicazione di strade da percorrere per proseguire il cammino e progredire.

Una di queste, la più recente, è definita con un termine incomprensibile ai più ma carico di prospettive: la “sinodalità”. È uno stile nuovo che Francesco ha voluto imprimere affinché tutto sia frutto di condivisione con il popolo. Lo scrittore – ateo e anticlericale – Javier Cercas, nel suo recente libro Il folle di Dio alla fine del mondo, realizzato dopo una serie di colloqui con papa Francesco, ha ben descritto questa prospettiva: una Chiesa che si trasforma da autocrazia a democrazia. Non la democrazia liberale che conosciamo, con elezioni, delegati, e tutti i limiti e le storture che ne derivano. Ma la democrazia nel senso pieno del suo significato: il governo del popolo. Del popolo di Dio («infallibile nella fede», come ricordò una volta citando il Concilio). Che partecipa, discute, consiglia, prega. E alla fine, davanti al suo Signore, Pietro che conferma il popolo.

Un altro, dei molti sentieri da percorrere, riguarda le donne. La Chiesa si trova ad affrontare – per la prima volta nella sua storia – l’abbandono di coloro che rappresentavano la forza militante, silenziosa e obbediente. Oggi tutto è cambiato. Le donne hanno preso coscienza della loro dignità. Il clero e i vescovi, molto meno. Papa Francesco, di fronte ad un clericalismo che non ha mai mancato di criticare come un «flagello, una forma di mondanità che sporca e danneggia il volto della Sposa del Signore, schiavizza il santo popolo fedele di Dio», contrapponeva «le donne che sanno aspettare, che sanno scoprire le risorse della Chiesa, del popolo fedele, che si spingono oltre il limite, forse con paura ma coraggiose, e nel chiaroscuro di un giorno che inizia si avvicinano a un sepolcro con l’intuizione (ancora non speranza) che ci possa essere qualcosa di vivo. La donna è un riflesso della Chiesa, la Chiesa è femminile, è una sposa e madre».

Quasi in sordina, ha fatto passare nomine all’interno della Curia vaticana impensabili fino a pochi anni fa, ponendo ai vertici dei Dicasteri – prerogativa di cardinali e vescovi – donne esperte e competenti in campo economico, giuridico e amministrativo. Perché il tema delle donne, divisivo e considerato dal clericalismo una minaccia a un potere maschile, ha saputo affrontarlo in modo pragmatico, riconoscendo loro dignità e valore. «Là dove ci sono le donne le cose funzionano» ha detto. E quando lo incontrai per presentargli un libro sulla storia delle donne cattoliche ticinesi mi disse: «Le donne hanno sempre ragione».

Sarà sepolto in Santa Maria Maggiore, ai piedi della Madonna Salus popoli romani e non in San Pietro. Come avvenne, prima di lui, per altri due grandi pontefici: Pio IX, che è in San Lorenzo fuori le Mura; e Leone XIII, che riposa in San Giovanni in Laterano.

Luigi Maffezzoli

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