
Papa Francesco durante la benedizione Urbi et Orbi della Pasqua 2025 (Fonte: Centro stampa vaticano)
No, l’ultimo “atto ufficiale” di Papa Francesco non fu l’incontro con J.D. Vance nel mattino della Domenica di Pasqua, quando ha ribadito comunque chiaramente la sua posizione nei confronti della politica migratoria di Trump denunciata giù in una lettera ai vescovi americani nel mese di febbraio, ma la sua benedizione Urbi et Orbi, con quel che si sarebbe poi palesato come suo “ultimo saluto” alla folla di Piazza San Pietro. In modo paradigmatico, Urbi et Orbi può valere come riassunto dello spirito del suo Papato ed eredità che indelebilmente ci lascia.
“Urbi”: nella sua prima apparizione il 13 marzo 2013, sulla stessa Loggia da dove ci ha salutato lunedì scorso con la sua benedizione, ha sottolineato – come forse nessun altro Pontefice da secoli a questa parte – di essere innanzitutto Vescovo di Roma, prima di essere Papa, annunciando la sua visione di Chiesa più decentralizzata in un mondo senza centro e in una cristianità che ha spostato i suoi centri (nel plurale) ormai in altre regioni del mondo. Non sarà più il Papato a “salvare” l’Europa, come accadde dopo il tramonto dell’Impero Romano e che un certo romanticismo moderno ha sempre rievocato: a un continente in cui il suo predecessore ha cercato la difesa dogmatica della fede, senza essere ascoltato, il primo Papa che scelse il “nome rivoluzionario” Francesco ha fatto capire che per “salvarsi” non basta reclamare “vecchi titoli” o “prerogative ereditate”. Anzi, bisogna che l’Europa ritrovi se stessa, a partire dal messaggio di San Francesco e dai Padri fondatori dell’Unione europea, Adenauer, De Gasperi e Schuman. Allo stesso momento, “urbi” è la chiave per la sua visione anti-globalizzata del mondo, in quanto lo sguardo della fede si interessa dell’umanità sempre al di là dei mercati, nella concretezza della sua bellezza e miseria locali.
“Orbi”: come nessun Papa precedente, e nella linea dei suoi predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II, Papa Francesco ha internazionalizzato la Chiesa rendendola una presenza globale. Non solo perché ha aggiunto 24 nuove nazioni al collegio cardinalizio, andando a scegliere i suoi collaboratori, nonché elettori del suo successore, da 72 nazioni diverse e da tutte le periferie del mondo (una parola che del resto ha sempre meno senso), ma soprattutto perché ha accolto i modi in cui ciò che è umano si esprime in tutte le culture, e in tutte le religioni, rendendo se stesso e la Chiesa un messaggio di speranza per tutto l’“orbe”. In questo senso, ha reso la forza della benedizione pasquale quale ragione del suo operato, di realizzare davvero una Chiesa universale, come «Padre di tutta l’umanità», come ha sottolineato l’arcivescovo di Buenos Aires, suo successore Jorge García Cuerva, nell’omelia di ricordo del Papa defunto.
Le riforme che Papa Francesco ha realizzato – a livello di un ripensamento dell’organizzazione e delle strutture della Chiesa, nonché della comprensione dell’autorità clericale e del coinvolgimento dei laici, che tutto confluisce nel suo principio della “sinodalità” – e quelle sulle quali ha frenato – diaconato delle donne, eccezioni dal celibato, maggiore accoglienza per divorziati risposati e coppie gay – progettano la Chiesa verso il futuro. Disegnano una Chiesa meno dogmatica e morale, ma più conseguente nell’impegno per la giustizia sociale, la misericordia e l’accoglienza dell’umanità. Ciò ha suscitato una forte opposizione al suo Magistero all’interno della Chiesa, fino all’accusa di tradire l’essenza religiosa del cattolicesimo. In parte, essa si evince ingiusta, specialmente quando si considera che per Papa Francesco l’amore del prossimo e dei poveri era la missione del Buon Samaritano e infine di Cristo stesso, e non un “programma filantropico”. Non a caso, la sua ultima enciclica era una «riflessione sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo», laddove «in questo mondo liquido è necessario parlare nuovamente del cuore».
Tuttavia occorre costatare che non solo in Europa, ma anche nell’America Latina, dove la Chiesa inizia ad affrontare i primi seri problemi di secolarizzazione, molti non hanno trovato in Papa Francesco le risposte che si attendevano. Non rompendo con nessun dogma, ma mettendo l’insegnamento in secondo piano rispetto all’annuncio, ha però insegnato un nuovo modo di vivere il cristianesimo. La consapevolezza che questo “metodo Francesco” richiede sia una realizzazione istituzionale che un approfondimento teologico accompagnerà i cardinali durante il conclave. Molti di essi – e non per forza tutti i cardinali “bergogliani” – si chiederanno chi potrà essere colui che nel miglior modo continui la grande visione del futuro e il forte messaggio che solo un Papa che rispondesse alla responsabilità di chiamarsi Francesco seppe esprimere.
Infatti, come già il Papa argentino fece l’esperienza che lo “spirito rivoluzionario” di Francesco si traduce in lente riforme parziali nell’apparato istituzionale della Chiesa, può essere che il nuovo Papa realizzi di fatto una revisione fondamentale della visione di Bergoglio. Sovente nella storia dei Papi ad una stagione di “riforme” e “aperture” ne seguiva una di “consolidamento” e “revisione”. Ciò che rimane però indelebilmente nella Chiesa, è lo spirito Urbi et orbi con le rispettive riforme istituzionali che Francesco ha realizzato e, che nel futuro, saranno valutate come condizione indispensabile della presenza della Chiesa nel mondo del III millennio.
Markus Krienke
