Colpire Mussolini (Mondadori 2025) di Mimmo Franzinelli ricostruisce l’anno terribile del Duce, esaminando gli attentati e la formazione della dittatura fascista. Tra novembre 1925 e ottobre 1926, quattro tentativi di assassinio si susseguirono contro Benito Mussolini. I progetti di tirannicidio, sebbene falliti, non favorirono il ritorno della democrazia né l’abbattimento del regime. Ma si rivelarono determinanti per il consolidamento dell’autorità del Duce. Franzinelli non si limita a esaminare accuratamente l’origine e le dinamiche di ogni attentato, ma ne restituisce l’effettivo significato storico. Il volume è riccamente documentato e analizza i tentativi individuali di contrastare la nascente tirannia. Ripercorre la storia di quattro attentatori – Tito Zaniboni, Violet Gibson, Gino Lucetti, Anteo Zamboni – che offrirono al regime il pretesto per l’approvazione delle leggi fascistissime, la reintroduzione della pena di morte e l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Questi episodi consolidarono in modo determinante il potere, analogamente all’incendio del Reichstag. Franzinelli osserva che «il regime utilizza l’emozione popolare dello scampato pericolo per rafforzare con massiccia operazione propagandistica e repressiva il proprio sistema di potere, alimentando il culto del duce». Le leggi fascistissime accelerarono le dinamiche liberticide di chiusura degli ultimi spazi di democrazia. L’autore inizia da Zaniboni, definito come l’apprendista stregone. Un personaggio impulsivo, attratto da posizioni estreme, animato dal desiderio di protagonismo. Iscritto al PSI, oscillava tra riformismo e rivoluzione, assumendo il ruolo di eroe romantico e privo di disciplina. Oltre al pedinamento della polizia, era un facile bersaglio degli squadristi. Il Governo fascista, dopo il complotto, prese provvedimenti contro partiti e giornali sovversivi. Con La Rivoluzione liberale scomparve una delle ultime voci della stampa libera. Seguirono il bando alla Massoneria e la liquidazione del partito di Giacomo Matteotti.
L’ex premier Vittorio Emanuele Orlando concluse la sua esperienza parlamentare dichiarando: «Nell’attuale vita pubblica italiana non vi è più posto per un uomo del mio passato». Mussolini riscattò la propria immagine dall’onta del delitto Matteotti e attuò un ulteriore forte giro di vite contro le opposizioni. La prima vittima dell’attentato fu il quotidiano del PSU. Arrestato, Zaniboni avrebbe dichiarato: «Io volevo far questo: con un fucile sparare al Presidente del Consiglio, al capo del Fascismo, specifichiamo e precisiamo, perché io tratto sempre del Capo del Fascismo e mai del Presidente del Consiglio». Nel marzo 1942, dopo sedici anni di reclusione, Zaniboni fu trasferito – su decisione del ministro di Grazia e Giustizia Dino Grandi – dal carcere di Alessandria a Ponza. Nel giugno 1943 lo rallegrò l’arrivo di Pietro Nenni, che rivide dopo un ventennio. Pietro Badoglio gli propose un posto nell’esecutivo, però Zaniboni declinò, perché riteneva il governo troppo reazionario.
Poi arrivò la nomina di Zaniboni a commissario per l’epurazione dei fascisti dalla vita pubblica. Franzinelli ricorda che l’espressione “fascismo regio” indica quei gerarchi che si smarcarono dal duce il 25 luglio nella prospettiva di un governo autoritario imperniato su monarchia e militari, in continuità con il fascismo senza l’impopolare Mussolini, contrario ai tedeschi e ostile agli antifascisti. Il commissario all’epurazione adempié le aspettative badogliane. Negli ultimi anni di vita, Zaniboni rovesciò l’interpretazione del delitto Matteotti, convincendosi che Mussolini – di cui divenne un ammiratore – non fosse il mandante. Non si sa se attribuire il ribaltamento a senescenza o al risultato dell’inserimento nei circoli della destra, ricorda Franzinelli. Morì nel dicembre 1960 a Roma, dopo una caduta dall’autobus. Tra gli articoli commemorativi, spicca il giudizio di Vittorio Gorresio che lo definì «un uomo generoso e sventato».
Il 1926 fu l’anno dei tre attentati. Franzinelli prosegue la carrellata con la “mistica col revolver”. Mussolini uscì dal 1925 con la certezza che «la Rivoluzione Fascista avrà nel 1926 il suo anno napoleonico»: l’approvazione dei nuovi codici (penale, commerciale, marittimo, di procedura civile e penale), la riforma dell’esercito, il rinnovamento del Paese per proiettarlo in una nuova epoca. Per dare lustro al regime lanciò l’idea dell’Accademia d’Italia e organizzò la visita di Stato in Libia. Ma il 7 aprile 1926, quando a Cannes moriva in clinica per i postumi delle aggressioni fasciste l’ex deputato liberale Giovanni Amendola, i giornali uscirono al pomeriggio in edizione straordinaria. Una vecchia sconosciuta aveva attentato alla vita del Duce. Che, scampato alla rivoltella e sempre attento alla propria immagine, fece divulgare gli scatti dell’attentato. E l’8 aprile s’imbarcò, come se nulla fosse, per la Tripolitania dal porto di Ostia.
A scrivere al Duce dopo l’attentato è la quattordicenne Claretta Petacci. «Duce. Per la seconda volta hanno attentato vigliaccamente alla Tua sacra persona. […] Quale ignominia, quale viltà, quale obbrobrio! Ma è straniera e tanto basta! […] amore? Duce, mio grandissimo Duce, nostra vita, nostra speranza, nostra gloria, come vi può essere un’anima così empia che attenti ai fulgidi destini della nostra bella Italia? O, Duce, perché non vi ero! Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina che ha ferito Te, divino essere? Perché non ho potuto toglierla per sempre dalla terra italiana, che è stata macchiata dal tuo puro sangue, dal tuo grande, buono, sincero sangue Romagnolo! […] Ti amo profondamente come una piccola Fascista della prima ora […]. Duce, la mia vita è per Te! Il Duce è salvo! Viva il Duce!». Il Tevere, di Telesio Interlandi più di altri giornali insistette sull’attentato Gibson.
I giornali londinesi parlarono una “mentecatta irlandese”. Re Giorgio V condannò l’attentato e il ministro degli Esteri Austen Chamberlain espresse il suo orrore in un telegramma. Il regime equiparò il dissenso politico al terrorismo, in funzione manipolatoria e presto impose il silenzio stampa sulla Gibson, perché sarebbe stato controproducente far sapere all’opinione pubblica che l’attentatrice era una folle priva di motivazioni politiche. Il regime scatenò una campagna xenofoba, presentando i governi europei quali favoreggiatori degli esuli in odio al governo italiano, ricorda Franzinelli. A guidare le indagini fu Epifanio Pennetta, che a metà giugno 1924 aveva arrestato Amerigo Dumini e gli altri sequestratori di Matteotti. Secondo Pennetta, la prigioniera non era una pazza, ma una simulatrice legata all’IRA e allo Sinn Féin. Rinchiusa nel manicomio provinciale di Roma, morì pochi mesi dall’ottantesimo compleanno e riposa nel cimitero di Kingsthorpe, a Northampton.
Il terzo attentatore, Lucetti, il vendicatore anarchico esule in Francia, ribelle per istinto, è il meno noto e anche meno interessante. Condannato a trent’anni per attentato a Mussolini, ferimento, tentativo di provocare tumulti. L’eco dell’attentato, della carcerazione e del processo fu rilanciata dall’intera stampa. Gli anarchici andarono orgogliosi del loro compagno. Solamente il 10 settembre 1943, con l’arrivo delle truppe angloamericane, fu liberato. Lucetti era stato ucciso insieme a un giovane ischiano col quale era andato a sedersi su una panchina da dove si vedeva Pozzuoli ancora nelle mani dei nazifascisti. Tra quanti ne compiansero la morte vi fu Benedetto Croce. Franzinelli ricorda che su Lucetti calò il silenzio e la storiografia lo ha ignorato. In ambito libertario viene annoverato tra le figure esemplari del martirologio anarchico. Gli anarchici maremmani hanno collocato sulla sua tomba, nel cimitero di Turigliano.
Nel 1932, il Duce disse a Emil Ludwig: «I presentimenti sono i fenomeni del subcosciente, i quali interessano il corpo e lo spirito: nell’estate già sento l’autunno, e avverto in anticipo anche le minacce, e in certi giorni non comincio ciò che prima ho deciso. Quando il 31 ottobre 1926 ero a Bologna mi opprimeva talmente l’atmosfera, che per tutto il giorno sentii che si appressava qualcosa di minaccioso: alla sera avvenne un attentato». Franzinelli rievoca la storia della famiglia degli Zamboni. Nel 1920 Mammolo Zamboni si avvicinò al fascismo, dichiarando: «Per me il fascismo non è altro che anarchismo messo sul carro statale. Ma è sempre spirito di ribellione e di individualismo che domina». Nato a Bologna nel 1911, il figlio Ateo Virginio – diventato Anteo nel registro scolastico per togliere la connotazione anticlericale – crebbe problematico, solitario, introverso, senza amici.
Il padre lo descriveva come minus habens. Nel 1923 era balilla e tesserato all’Avanguardia giovanile fascista. Nel quaderno che intitolò “Frasi e motti celebri” trascrisse massime attribuite a personaggi d’ogni epoca. «Uccidere un Tiranno che strazia una Nazione non è delitto, è Giustizia. – A.» e «Per la libertà morire è bello e santo. – A». “A.” stava per Anteo. Il ragazzino si preparava a sacrificarsi per priorità politico-morali, conclude Franzinelli, come esprimeva nella frase dedicata al suo primo amore: «Non posso amarti perché non so se vivrò dopo aver compiuto quello che mi sono promesso». Al momento dell’attentato a Bologna, un secondo proiettile s’inceppò nella Beretta 7,65 per un difetto dovuto all’eccessivo caricamento. Un ufficiale di fanteria – Carlo Alberto Pasolini, padre del poeta – bloccò l’attentatore, travolto da decine di camicie nere, gettato a terra e colpito con pugni, calci, manganelli e pugnali.
Mussolini balzò in piedi: «Fermi, fermi! Non mi hanno preso!». Ma il linciaggio proseguì. Italo Balbo uscì dal groviglio alzando un pugnale insanguinato: «Duce, giustizia è stata fatta!». I massacratori, come invasati, continuarono a colpire il cadavere. Mammolo fu arrestato all’istante. Si crede che Anteo Zamboni sia stato linciato per coprire il vero responsabile, emissario di circoli estremisti del fascismo legati a Roberto Farinacci. Ma la glorificazione di Anteo placò nel padre il senso di colpa per non averlo compreso né sorretto quando si isolava nella sua solitudine. Con la condanna degli Zamboni calò il silenzio stampa sull’attentato. Rilasciato dopo sei anni, Zamboni espatriò e a Lugano riprese contatto con i circoli dell’esilio, trovando impiego in una tipografia. Chiese a Mussolini la grazia per i suoi cari, ma nel Dopoguerra risultava nell’elenco dei collaboratori dell’OVRA.
A Mammolo e alla famiglia sopravvisse il ricordo di Anteo, sconfinante nel mito dell’eroe celebrato nel 1972 da Francesco Guccini in “La locomotiva”. La notizia del terzo attentato in meno di sette mesi scatenò un’ondata di aggressioni contro i più noti oppositori, con la distruzione di centinaia di sedi dei movimenti di sinistra. A Cagliari venne assalito lo studio dell’onorevole Emilio Lussu. Si verificò la distruzione di redazioni e tipografie di l’Unità, Avanti!, La Voce Repubblicana, Corriere di Sardegna, Il Nuovo Trentino. Poi si ebbe l’annullamento dei passaporti agli oppositori, soppressione di giornali e organismi contrari al regime, introduzione del confino. E ancora: sequestro dell’onorevole Alcide De Gasperi, arresto di Antonio Gramsci e altri deputati comunisti, in spregio all’immunità parlamentare. Alla campagna per la reintroduzione della pena capitale contribuì Mario Sironi, in prima fila nella propaganda di regime.
Amedeo Gasparini
Colpire Mussolini (Mondadori 2025) di Mimmo Franzinelli ricostruisce l’anno terribile del Duce, esaminando gli attentati e la formazione della dittatura fascista. Tra novembre 1925 e ottobre 1926, quattro tentativi di assassinio si susseguirono contro Benito Mussolini. I progetti di tirannicidio, sebbene falliti, non favorirono il ritorno della democrazia né l’abbattimento del regime. Ma si rivelarono determinanti per il consolidamento dell’autorità del Duce. Franzinelli non si limita a esaminare accuratamente l’origine e le dinamiche di ogni attentato, ma ne restituisce l’effettivo significato storico. Il volume è riccamente documentato e analizza i tentativi individuali di contrastare la nascente tirannia. Ripercorre la storia di quattro attentatori – Tito Zaniboni, Violet Gibson, Gino Lucetti, Anteo Zamboni – che offrirono al regime il pretesto per l’approvazione delle leggi fascistissime, la reintroduzione della pena di morte e l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Questi episodi consolidarono in modo determinante il potere, analogamente all’incendio del Reichstag. Franzinelli osserva che «il regime utilizza l’emozione popolare dello scampato pericolo per rafforzare con massiccia operazione propagandistica e repressiva il proprio sistema di potere, alimentando il culto del duce». Le leggi fascistissime accelerarono le dinamiche liberticide di chiusura degli ultimi spazi di democrazia. L’autore inizia da Zaniboni, definito come l’apprendista stregone. Un personaggio impulsivo, attratto da posizioni estreme, animato dal desiderio di protagonismo. Iscritto al PSI, oscillava tra riformismo e rivoluzione, assumendo il ruolo di eroe romantico e privo di disciplina. Oltre al pedinamento della polizia, era un facile bersaglio degli squadristi. Il Governo fascista, dopo il complotto, prese provvedimenti contro partiti e giornali sovversivi. Con La Rivoluzione liberale scomparve una delle ultime voci della stampa libera. Seguirono il bando alla Massoneria e la liquidazione del partito di Giacomo Matteotti.
L’ex premier Vittorio Emanuele Orlando concluse la sua esperienza parlamentare dichiarando: «Nell’attuale vita pubblica italiana non vi è più posto per un uomo del mio passato». Mussolini riscattò la propria immagine dall’onta del delitto Matteotti e attuò un ulteriore forte giro di vite contro le opposizioni. La prima vittima dell’attentato fu il quotidiano del PSU. Arrestato, Zaniboni avrebbe dichiarato: «Io volevo far questo: con un fucile sparare al Presidente del Consiglio, al capo del Fascismo, specifichiamo e precisiamo, perché io tratto sempre del Capo del Fascismo e mai del Presidente del Consiglio». Nel marzo 1942, dopo sedici anni di reclusione, Zaniboni fu trasferito – su decisione del ministro di Grazia e Giustizia Dino Grandi – dal carcere di Alessandria a Ponza. Nel giugno 1943 lo rallegrò l’arrivo di Pietro Nenni, che rivide dopo un ventennio. Pietro Badoglio gli propose un posto nell’esecutivo, però Zaniboni declinò, perché riteneva il governo troppo reazionario.
Poi arrivò la nomina di Zaniboni a commissario per l’epurazione dei fascisti dalla vita pubblica. Franzinelli ricorda che l’espressione “fascismo regio” indica quei gerarchi che si smarcarono dal duce il 25 luglio nella prospettiva di un governo autoritario imperniato su monarchia e militari, in continuità con il fascismo senza l’impopolare Mussolini, contrario ai tedeschi e ostile agli antifascisti. Il commissario all’epurazione adempié le aspettative badogliane. Negli ultimi anni di vita, Zaniboni rovesciò l’interpretazione del delitto Matteotti, convincendosi che Mussolini – di cui divenne un ammiratore – non fosse il mandante. Non si sa se attribuire il ribaltamento a senescenza o al risultato dell’inserimento nei circoli della destra, ricorda Franzinelli. Morì nel dicembre 1960 a Roma, dopo una caduta dall’autobus. Tra gli articoli commemorativi, spicca il giudizio di Vittorio Gorresio che lo definì «un uomo generoso e sventato».
Il 1926 fu l’anno dei tre attentati. Franzinelli prosegue la carrellata con la “mistica col revolver”. Mussolini uscì dal 1925 con la certezza che «la Rivoluzione Fascista avrà nel 1926 il suo anno napoleonico»: l’approvazione dei nuovi codici (penale, commerciale, marittimo, di procedura civile e penale), la riforma dell’esercito, il rinnovamento del Paese per proiettarlo in una nuova epoca. Per dare lustro al regime lanciò l’idea dell’Accademia d’Italia e organizzò la visita di Stato in Libia. Ma il 7 aprile 1926, quando a Cannes moriva in clinica per i postumi delle aggressioni fasciste l’ex deputato liberale Giovanni Amendola, i giornali uscirono al pomeriggio in edizione straordinaria. Una vecchia sconosciuta aveva attentato alla vita del Duce. Che, scampato alla rivoltella e sempre attento alla propria immagine, fece divulgare gli scatti dell’attentato. E l’8 aprile s’imbarcò, come se nulla fosse, per la Tripolitania dal porto di Ostia.
A scrivere al Duce dopo l’attentato è la quattordicenne Claretta Petacci. «Duce. Per la seconda volta hanno attentato vigliaccamente alla Tua sacra persona. […] Quale ignominia, quale viltà, quale obbrobrio! Ma è straniera e tanto basta! […] amore? Duce, mio grandissimo Duce, nostra vita, nostra speranza, nostra gloria, come vi può essere un’anima così empia che attenti ai fulgidi destini della nostra bella Italia? O, Duce, perché non vi ero! Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina che ha ferito Te, divino essere? Perché non ho potuto toglierla per sempre dalla terra italiana, che è stata macchiata dal tuo puro sangue, dal tuo grande, buono, sincero sangue Romagnolo! […] Ti amo profondamente come una piccola Fascista della prima ora […]. Duce, la mia vita è per Te! Il Duce è salvo! Viva il Duce!». Il Tevere, di Telesio Interlandi più di altri giornali insistette sull’attentato Gibson.
I giornali londinesi parlarono una “mentecatta irlandese”. Re Giorgio V condannò l’attentato e il ministro degli Esteri Austen Chamberlain espresse il suo orrore in un telegramma. Il regime equiparò il dissenso politico al terrorismo, in funzione manipolatoria e presto impose il silenzio stampa sulla Gibson, perché sarebbe stato controproducente far sapere all’opinione pubblica che l’attentatrice era una folle priva di motivazioni politiche. Il regime scatenò una campagna xenofoba, presentando i governi europei quali favoreggiatori degli esuli in odio al governo italiano, ricorda Franzinelli. A guidare le indagini fu Epifanio Pennetta, che a metà giugno 1924 aveva arrestato Amerigo Dumini e gli altri sequestratori di Matteotti. Secondo Pennetta, la prigioniera non era una pazza, ma una simulatrice legata all’IRA e allo Sinn Féin. Rinchiusa nel manicomio provinciale di Roma, morì pochi mesi dall’ottantesimo compleanno e riposa nel cimitero di Kingsthorpe, a Northampton.
Il terzo attentatore, Lucetti, il vendicatore anarchico esule in Francia, ribelle per istinto, è il meno noto e anche meno interessante. Condannato a trent’anni per attentato a Mussolini, ferimento, tentativo di provocare tumulti. L’eco dell’attentato, della carcerazione e del processo fu rilanciata dall’intera stampa. Gli anarchici andarono orgogliosi del loro compagno. Solamente il 10 settembre 1943, con l’arrivo delle truppe angloamericane, fu liberato. Lucetti era stato ucciso insieme a un giovane ischiano col quale era andato a sedersi su una panchina da dove si vedeva Pozzuoli ancora nelle mani dei nazifascisti. Tra quanti ne compiansero la morte vi fu Benedetto Croce. Franzinelli ricorda che su Lucetti calò il silenzio e la storiografia lo ha ignorato. In ambito libertario viene annoverato tra le figure esemplari del martirologio anarchico. Gli anarchici maremmani hanno collocato sulla sua tomba, nel cimitero di Turigliano.
Nel 1932, il Duce disse a Emil Ludwig: «I presentimenti sono i fenomeni del subcosciente, i quali interessano il corpo e lo spirito: nell’estate già sento l’autunno, e avverto in anticipo anche le minacce, e in certi giorni non comincio ciò che prima ho deciso. Quando il 31 ottobre 1926 ero a Bologna mi opprimeva talmente l’atmosfera, che per tutto il giorno sentii che si appressava qualcosa di minaccioso: alla sera avvenne un attentato». Franzinelli rievoca la storia della famiglia degli Zamboni. Nel 1920 Mammolo Zamboni si avvicinò al fascismo, dichiarando: «Per me il fascismo non è altro che anarchismo messo sul carro statale. Ma è sempre spirito di ribellione e di individualismo che domina». Nato a Bologna nel 1911, il figlio Ateo Virginio – diventato Anteo nel registro scolastico per togliere la connotazione anticlericale – crebbe problematico, solitario, introverso, senza amici.
Il padre lo descriveva come minus habens. Nel 1923 era balilla e tesserato all’Avanguardia giovanile fascista. Nel quaderno che intitolò “Frasi e motti celebri” trascrisse massime attribuite a personaggi d’ogni epoca. «Uccidere un Tiranno che strazia una Nazione non è delitto, è Giustizia. – A.» e «Per la libertà morire è bello e santo. – A». “A.” stava per Anteo. Il ragazzino si preparava a sacrificarsi per priorità politico-morali, conclude Franzinelli, come esprimeva nella frase dedicata al suo primo amore: «Non posso amarti perché non so se vivrò dopo aver compiuto quello che mi sono promesso». Al momento dell’attentato a Bologna, un secondo proiettile s’inceppò nella Beretta 7,65 per un difetto dovuto all’eccessivo caricamento. Un ufficiale di fanteria – Carlo Alberto Pasolini, padre del poeta – bloccò l’attentatore, travolto da decine di camicie nere, gettato a terra e colpito con pugni, calci, manganelli e pugnali.
Mussolini balzò in piedi: «Fermi, fermi! Non mi hanno preso!». Ma il linciaggio proseguì. Italo Balbo uscì dal groviglio alzando un pugnale insanguinato: «Duce, giustizia è stata fatta!». I massacratori, come invasati, continuarono a colpire il cadavere. Mammolo fu arrestato all’istante. Si crede che Anteo Zamboni sia stato linciato per coprire il vero responsabile, emissario di circoli estremisti del fascismo legati a Roberto Farinacci. Ma la glorificazione di Anteo placò nel padre il senso di colpa per non averlo compreso né sorretto quando si isolava nella sua solitudine. Con la condanna degli Zamboni calò il silenzio stampa sull’attentato. Rilasciato dopo sei anni, Zamboni espatriò e a Lugano riprese contatto con i circoli dell’esilio, trovando impiego in una tipografia. Chiese a Mussolini la grazia per i suoi cari, ma nel Dopoguerra risultava nell’elenco dei collaboratori dell’OVRA.
A Mammolo e alla famiglia sopravvisse il ricordo di Anteo, sconfinante nel mito dell’eroe celebrato nel 1972 da Francesco Guccini in “La locomotiva”. La notizia del terzo attentato in meno di sette mesi scatenò un’ondata di aggressioni contro i più noti oppositori, con la distruzione di centinaia di sedi dei movimenti di sinistra. A Cagliari venne assalito lo studio dell’onorevole Emilio Lussu. Si verificò la distruzione di redazioni e tipografie di l’Unità, Avanti!, La Voce Repubblicana, Corriere di Sardegna, Il Nuovo Trentino. Poi si ebbe l’annullamento dei passaporti agli oppositori, soppressione di giornali e organismi contrari al regime, introduzione del confino. E ancora: sequestro dell’onorevole Alcide De Gasperi, arresto di Antonio Gramsci e altri deputati comunisti, in spregio all’immunità parlamentare. Alla campagna per la reintroduzione della pena capitale contribuì Mario Sironi, in prima fila nella propaganda di regime.
Amedeo Gasparini