Commento

Gentile, Croce e la battaglia dei manifesti nell’Italia fascista

Primavera 1925, duello dei manifesti. Il 21 aprile, Il Popolo d’Italia pubblicava il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, voluto da Giovanni Gentile per sancire l’adesione di una parte della cultura italiana al regime di Benito Mussolini. L’iniziativa nasceva dal successo del primo Convegno degli istituti di cultura, tenutosi a Bologna il 29 e 30 marzo di un secolo fa, sotto la guida di Gentile e con la partecipazione di oltre trecento intellettuali e artisti. Fra i firmatari e simpatizzanti figuravano nomi di primo piano: Luigi Federzoni, Curzio Malaparte, Filippo Tommaso Marinetti, Ugo Ojetti, Luigi Pirandello, Alfredo Rocco, Margherita Sarfatti, Ardengo Soffici, Ugo Spirito, Giuseppe Ungaretti, Gioacchino Volpe, tra gli altri. La posta in gioco era alta. Il regime, ancora scosso dalle accuse nazionali ed internazionali dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti, cercava di uscire dall’isolamento politico e culturale.

Il “Manifesto”, si proponeva di raccontare la storia del Fascismo dal 1919 al 1922, interpretando il movimento non come una semplice reazione conservatrice, ma un’epopea di rinnovamento spirituale. Con non poche forzature, lo squadrismo veniva paragonato alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Ossia, un movimento di minoranza, mosso da un’energia religiosa, destinato a rigenerare l’Italia staccandola dal liberalismo decadente. Gentile difendeva le limitazioni alla libertà di stampa come misure necessarie in tempi di crisi, ricordando come anche gli Stati liberali avessero promosso simili restrizioni quando richiesto dall’interesse generale. Il filosofo definì il Fascismo come «un movimento recente ed antico», radicato nella storia nazionale e d’interesse anche per il resto del mondo. Il Fascismo sarebbe nato come reazione alla crisi postbellica, raccogliendo attorno a Mussolini un manipolo di uomini decisi a combattere la politica «demosocialista» che aveva ridotto il significato della guerra a un calcolo individualistico.

Secondo Gentile, nel Fascismo l’individuo trova senso e libertà solo in un’idea superiore: la Patria. Intesa non come semplice eredità storica, ma come «tradizione e missione». Una realtà dinamica che si rinnova nella coscienza dei cittadini. Da qui il «carattere religioso del Fascismo», fondato su una fede intransigente e sul metodo di lotta. Gentile critica il liberalismo tradizionale, accusandolo di essere «agnostico e abdicatorio». Nella sua concezione, lo Stato liberale si limita a garantire la libertà esteriore, senza riconoscere la necessità di coscienza comune, argomenta. Di converso, il Fascismo vuole uno Stato che sia espressione di una coscienza nazionale unitaria. L’opposizione antifascista è rappresentata come una forza inferiore, composta dai «detriti del vecchio politicantismo» e incapace di offrire alternative. Secondo Gentile, «di due principi uno superiore e l’altro inferiore, il primo deve necessariamente soccombere»: così che il programma fascista avrebbe superato i residui di verità degli avversari.

Per questo motivo, i fascisti nutrono una «fede inconcussa» nel trionfo del loro movimento e adottano un atteggiamento di «pazienza longanime». Gentile vede così la crisi italiana come destinata a risolversi entro il Fascismo, preparando la nascita di «nuove idee, nuovi programmi, nuovi partiti». Su questo su altro, la risposta di Benedetto Croce non si fece attendere. Su invito di Giovanni Amendola, accettò di scrivere una replica. L’antico rispetto personale per Gentile, una volta sodale e amico, lasciava ormai spazio a un sentimento di profondo tradimento. Croce considerava il Fascismo non un movimento culturale, ma un moto di reazione patrocinato da industriali e agrari, privo di autentiche radici etico-politiche. Il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, pubblicato il 1º maggio 1925 su Il Mondo, intendeva non solo contrastare Gentile. Ma riaffermare un’idea alta di liberalismo come libera gara di forze politiche, rifiutando la retorica della subordinazione totalitaria.

Per Croce, gl’intellettuali, come cittadini, hanno diritto di parteggiare, ma come cultori della scienza e dell’arte devono «innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale». Contaminare letteratura e politica, patrocinare «deplorevoli violenze» e «soppressione della libertà di stampa», significa tradire il loro compito più alto. Sul piano dottrinale, il manifesto è «un imparaticcio scolaresco» pieno di confusioni, dove si scambia l’atomismo settecentesco col liberalismo democratico ottocentesco. Dove si celebra «la sottomissione degl’individui al tutto». Grave, per Croce, è pure l’uso strumentale della parola religione. Giacché chiamare guerra di religione l’odio tra italiani significa «una assai lugubre facezia». Il manifesto gentiliano nobilita rancori, sospetti e inimicizie che avvelenano anche le università. Dalle sue dichiarazioni non emerge alcuna nuova fede, bensì «un incoerente miscuglio di autorità e demagogismo, di modernità e vecchiume», di «atteggiamenti assolutistici e tendenze bolsceviche».

Anche i provvedimenti del governo fascista non mostrano originale impronta né fondano un vero nuovo sistema politico. A fronte di questa pretesa religiosa, Croce riafferma la fedeltà «alla nostra vecchia fede», nata dall’amore alla verità, giustizia, libertà dell’Italia sin dal Risorgimento. Evoca la memoria degli uomini che «per l’Italia operarono, patirono e morirono», ammonendo a non tradire la loro bandiera. Il documento, inizialmente firmato da una quarantina di intellettuali, fu ampliato nei giorni successivi raccogliendo oltre duecento adesioni – prettamente tra i professori universitari. Tra i firmatari più illustri, Giovanni Ansaldo, Carlo Cassola, Emilio Cecchi, Luigi Einaudi, Mario Borsa, Corrado Alvaro, Luigi Albertini, Panfilo Gentile, Gaetano Salvemini, Eugenio Montale, Sibilla Aleramo, Gaetano Mosca, Lavinia Mazzucchetti, tra gli altri. Dietro lo scontro tra i due Manifesti non vi era solo una questione italiana, ma una frattura più ampia che aveva attraversato l’Europa a partire dalla Grande Guerra.

Il liberalismo, agli occhi dei fascisti, aveva invece prodotto solo individualismo, disgregazione e debolezza. Croce, invece, rifiutava questa visione. E difendeva un’idea di libertà politica come pluralismo, apertura della società alla partecipazione. Condannava il culto della fede totalitaria, vedendovi non una rinascita, ma una regressione alla barbarie. Il suo antifascismo univa il conservatorismo liberale, la razionalità moderata del giolittismo. Ma anche la ribellione etica dell’intellettuale europeo quale era. D’altronde, Piero Gobetti aveva colto con lucidità il senso profondo dell’azione crociana. «Accanto ai motivi del conservatore e dell’italiano di buonsenso c’è la ribellione dell’europeo e dell’uomo di cultura». La pubblicazione dei manifesti segnò una frattura nella cultura italiana. Da una parte, una parte dell’intellettualità si poneva al servizio del regime. Dall’altra, un’esigua ma coraggiosa minoranza si preparava a percorrere il lungo cammino dell’antifascismo, della resistenza civile – qualcosa che non sarebbe stato possibile ancora a lungo.

Amedeo Gasparini

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