Commento

Giacomo Matteotti, la lotta democratica e il coraggio delle idee

Giacomo Matteotti è una figura chiave nella storia italiana del XX secolo. Sono passati cento anni dall’omicidio del segretario del Partito Socialista Unitario, assassinato dai fascisti a Roma il 10 giugno 1924. Eppure, Matteotti è rimasto – in conformità alla sua celebre frase: «Uccidete pure me. L’idea che è in me non l’ucciderete mai». È andata davvero così: Giacomo Matteotti è stato un visionario, un parlamentare impegnato e rigoroso, un uomo e un politico coraggioso. Coerente fino alla morte. Capì, a differenza di molti, sin da subito la natura autoritaria del fascismo e si fece interprete della lotta democratica rispetto alla violenza nera. Intuì anche la necessità di un’Italia forte e di un’Europa unita. Ha insegnato la dignità della Resistenza contro la tirannia fascista, illiberale, antidemocratica. Sarebbe stato un leader naturale della socialdemocrazia europea se fosse sopravvissuto alla guerra, forse a pari di Clement Attlee, Willy Brandt o Olof Palme.

Matteotti era pragmatico. Con una visione internazionalista, era anche competente in economia – la chiave, spesso, per condurre buone politiche. È negli ambiti socialisti di Rovigo dove conobbe Benito Mussolini, al tempo un convinto socialista. Ne ricavò immediatamente un’impressione negativa. Lo riteneva un uomo che non aveva scrupoli e che avrebbe usato la violenza per conquistare il potere. Il futuro Duce era un massimalista – come i comunisti, era interessato più alla rivoluzione che alle condizioni dei lavoratori). D’altra parte, Matteotti era un riformista; a favore, dunque, di una unità nel solco del liberalismo socialista e non dell’autoritarismo comunista di chi strizzava l’occhio al Bolscevismo. In un congresso a Rovigo Mussolini aveva vinto con 309 voti contro i 198 di Matteotti. Ma il socialista non si dava per vinto e aveva un temperamento battagliero. Nel 1919 divenne deputato ed entrò nella Commissione Finanze e Tesoro.

Il 31 gennaio 1921 prese la parola alla Camera. «Oggi in Italia esiste un’organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, incendi e li eseguono. […] Codesta violenza è esercitata per interesse di classe […] e la parte più arretrata della borghesia, l’Agraria, sarebbe anche contenta di lasciar perire lo Stato per salvare la sua borsa. […] La giustizia privata che si sostituisce alla pubblica è giustizia sommaria. E la classe che detiene il privilegio politico, economico, che ha con sé la magistratura, la polizia, l’esercito, ritiene che sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esce dalla legalità e si arma contro il proletariato. Il governo e le sue autorità assistono impassibili e complici allo scempio della legge». Boccone indigeribile per Mussolini.

La moglie Velia Titta gli aveva detto di stare attento. Nel 1922 divenne segretario del Partito Socialista Unitario. I fascisti giunsero al potere nell’autunno 1922. Più Mussolini si rafforzava più, Matteotti era solo. Fallite le intese con i comunisti e Don Luigi Sturzo, a Matteotti venne confiscato il passaporto, ma riuscì comunque ad andare in Inghilterra per notizie sulle tangenti pagate al regime fascista sulle forniture della Sinclair Oil. Si spinse troppo in là. Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti prese la parola alla Camera e denunciò nuovamente le violenze e i brogli ultime elezioni “libere”. «Contestiamo […] la validità delle elezioni della maggioranza. […] Nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà… […] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza».

Infine, lapidario e rassegnato: «Io ho fatto il mio discorso. Voi ora preparate il mio discorso funebre». Fu profeta. Il primo giugno Mussolini su Il Popolo d’Italia definì l’intervento mostruosamente provocatorio. Il pomeriggio del 10 giugno cinque assassini guidati da Amerigo Dumini lo aspettarono sotto casa a Roma. Il deputato fu colpito alla testa e sviene. Fu pugnalato due volte. Il mandante era chiaro. Ma Mussolini si finse estraneo e assicurò maggiore luce sul delitto, anche di fronte a Velia che tre giorni dop l’omicidio richiedeva la salma del marito. Imbarazzato, nell’ora più grave per il primo Fascismo, Mussolini vaneggiò a proposito di processi ai convolti – Dumini fu condannato al carcere. Il processo nel complesso fu una farsa. L’Italia del tempo fu pervasa da un’onda di commozione popolare per il primo delitto politico – e certamente il più grave – del Regno.

Pasquale Galliano Magno, il legale che rimase a fianco di Velia, avrebbe affrontato una quindicina d’anni di persecuzioni. Aggredito, picchiato: gli fecero bere l’olio di ricino. L’OVRA avrebbe controllato i Matteotti per anni. L’omicidio del parlamentare socialista, antesignano dello spirito della Resistenza, segnò una svolta nella politica del paese e portò all’emergere di un regime sempre più autoritario e repressivo, che andava di par passo con la scomparsa dell’opposizione politica e la soppressione delle libertà civili. Quando si dice che Mussolini fu un buon governante (peccato per le leggi razziali e l’alleanza con la Germania nazista!), ci si ricordi della gente al confine, della violenza fascista da San Sepolcro in poi, dalla repressione del concetto di democrazia, della corruzione che permeò il partito-Stato sin dai primi momenti. Ci si ricordi dell’omicidio di Giacomo Matteotti.

Mussolini stesso era spaventato dalle reazioni all’indomani della morte. Ma reagì con scaltrezza. Sapeva che il regime poteva morire o rinnovarsi sotto altre vesti. Fu così che il regime pose così fine alla sua prima crisi. Sbarazzatosi dell’individuo che più lo aveva offeso, ritenne che atti emulatori andassero repressi sul nascere, viste anche prospettive sulle evoluzioni aventiniane. Il regime optò per l’unica soluzione che conosceva: l’uso della violenza, della paura, dell’intimidazione. L’anno dopo fu il primo anno delle leggi fasciatissime. Velia morì nel 1938, a quarant’otto anni, in ospedale. Mussolini confidò al genero Galeazzo Ciano: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici». Ai funerali di Velia partecipano quattordici persone. Venne ordinata un’indagine minuziosa su ognuna di loro. I fiori sul feretro vennero sequestrati.

L’eco dell’omicidio Matteotti si sparse in tutta Europa. Nel 1927 il sindaco socialdemocratico di Vienna Karl Seitz chiamò Matteottihof un grande complesso residenziale da 452 appartamenti. Per compiacere il Duce, il regime dell’austriaco Engelbert Dollfuss abolì il nome, che poi fu ripristinato nel 1945. Dumini fu processato nell’Italia repubblicana e condannato all’ergastolo, ma morì in un incidente domestico. Giacomo Matteotti era un personaggio scomodo: troppi nemici da vivo. La sua eredità è la resistenza al fascismo e la difesa dei principi democratici. Un lascito urgente, che continua ad interpellare i posteri dell’Italia repubblicana sorta nel Dopoguerra. Il suo coraggio nell’affrontare il regime totalitario e la sua lotta per la libertà e i diritti umani sono giustamente celebrati da generazioni successive. Un eroe nazionale e un simbolo di impegno civile: Matteotti rimane un esempio di coerenza civica, di giustizia e libertà.

Amedeo Gasparini

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