Commento

Giuliano da Empoli osserva il potere mondiale in un saggio-memoir

L’ora dei predatori (Einaudi 2025) di Giuliano da Empoli è un libro che promette più di quanto mantiene. Presentato come cronaca dall’interno del potere contemporaneo, oscilla tra memoir politico e pamphlet apocalittico, senza essere pienamente né l’uno né l’altro. La struttura frammentaria – capitoli brevi ambientati in diverse capitali mondiali – dovrebbe restituire l’accelerazione caotica del presente. Ma produce invece un effetto di dispersione narrativa dove l’aneddotica prevale sull’analisi. La tesi è semplice: una nuova classe di leader spregiudicati (“borgiani”) si è alleata con gli oligarchi del Tech per spazzare via l’ordine liberale. Donald Trump, Mohammed bin Salman, Nayib Bukele, Javier Milei da un lato; Elon Musk, Mark Zuckerberg, i guru dell’IA dall’altro. Insieme rappresenterebbero l’avvento di un’era dove il potere si basa sulla capacità di generare shock, sull’azione irriflessa, sul disprezzo per regole e istituzioni. Il problema è che questa categoria unificante non regge all’esame.

Cosa accomuna davvero un autocrate populista come Trump, un principe assolutista modernizzatore come MBS e un presidente eletto democraticamente come Bukele, al di là di una generica “spregiudicatezza”? Giuliano da Empoli privilegia le somiglianze superficiali rispetto alle differenze strutturali. Ne risulta un ritratto che cattura un mood, ma non spiega meccanismi. Il libro registra sintomi senza diagnosticare cause. Questo limite emerge nel trattamento della convergenza tra politica e tecnologia. Che il Big Tech abbia un potere enorme è innegabile, come è vero che figure come Musk hanno abbandonato ogni neutralità per schierarsi politicamente. Ma da Empoli drammatizza questa alleanza senza analizzarne le contraddizioni interne. Ovverosia, i conflitti tra diverse piattaforme, le tensioni con gli stati, le diverse strategie aziendali. Il capitolo su Eric Schmidt descrive il suo ruolo nell’elezione di Barack Obama, ma poi salta alla rottura attuale tra Silicon Valley e democratici senza spiegare cosa è successo nel mezzo.

Le parti migliori del libro sono le scene osservate direttamente. Da Empoli sa scrivere e ha l’occhio del romanziere per i dettagli rivelatori: l’Assemblea ONU come caos di corpi e protocolli, la cena della fondazione Obama trasformata in parodia involontaria del progressismo americano, l’incontro con i big dell’IA a Lisbona, conferendo ad ogni episodio una dimensione materiale e grottesca. Ma proprio qui emerge un secondo problema: la rinuncia programmatica all’analisi sistematica. Da Empoli rivendica di procedere per immagini, più che per concetti. Ma produce un testo che accumula episodi senza costruire una vera argomentazione. Da Empoli lamenta la caduta dell’ordine liberale, ma non si interroga sui suoi fallimenti. I “borgiani” hanno vinto perché spregiudicati o perché le vecchie élite hanno perso legittimità? Il ritratto degli “avocats” coglie qualcosa di vero, ma dove conduce? Se il partito del diritto e delle regole è diventato politicamente sterile, qual è l’alternativa?

Questa ambiguità si riflette nella dimensione autobiografica mai davvero esplicitata. Parrebbe che da Empoli abbia fatto parte per anni del mondo che ora descrive in disfacimento: consulente di governi, frequentatore di summit internazionali, insider con accesso alle stanze del potere. Nel complesso, il volume rinuncia all’argomentazione sistematica, la preferenza per la suggestione rispetto alla dimostrazione e soprattutto l’assenza di qualsiasi prospettiva costruttiva ne fanno un libro che constata senza comprendere o sorprendere davvero. Il confronto con Il mago del Cremlino, il precedente libro di Giuliano da Empoli, è istruttivo. Lì la forma del romanzo permetteva di esplorare il potere autoritario dall’interno mantenendo distanza critica. Qui l’ibrido tra memoir e saggio produce confusione di generi. Il risultato è un libro ben scritto, ma intellettualmente insoddisfacente. Che parla soprattutto al disagio delle élite liberali di fronte al proprio declino senza offrire strumenti per andare oltre questo disagio.

Amedeo Gasparini

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