Teatro

Il Calapranzi, un classico della contemporaneità

Massimiliano Zampetti e Sebastiano Bottari

A partire da sinistra, Massimiliano Zampetti e Sebastiano Bottari.

Se ha letto il testo e/o ne ha viste rappresentate diverse versioni, allo spettatore di oggi manca sia l’effetto sorpresa, sia la necessità d’interrogarsi attorno a quella situazione apparentemente così banale e quotidiana, di cui però percepisce una palpabile atmosfera d’inquieta minaccia. In compenso può distendersi nel cogliere i dettagli e le nevrosi, perché lui “sa” qualcosa di più, nei confronti almeno (forse) di un personaggio. Il teatro dell’assurdo declinato alla Pinter, oltre a intrecciare dialoghi sospesi e sfasati fino a produrre una costante enigmaticità e dilatare silenzi il cui spessore diventa protagonista, è sviluppato attorno alla centrale ambiguità, i gesti e le parole significano sempre qualcosa d’altro. A partire dal titolo originale inglese The Dumwaiter, che contiene il concetto di attendere e di cameriere, politicamente, un “servo” del sistema. In italiano, Il Calapranzi, non denota la doppiezza, anche se punta l’attenzione su quella struttura meccanica, un ascensore per trasmettere cibo, trasformata in un simbolo metafisico, cala dall’alto e manda messaggi di una ignota entità la cui forte presenza assume la consistenza, seppure invisibile, di terzo personaggio.

Il testo è della fine anni ’50 e colui che quasi mezzo secolo dopo riceverà il Nobel (2005), lo affronta in una visione certamente politica ma anche filosofica. L’accento è messo sulla reificazione dell’essere umano intrappolato in una struttura sociale da cui è dominato e che può solo subire, non controllare, una struttura formata da chi comanda e da chi deve ubbidire, dall’alto al basso, compiti ben precisi e stabiliti che non devono essere messi in discussione; porsi delle domande, riflettere, esporre dei dubbi, incrina e rischia di mettere in pericolo l’equilibrio necessario a regolare la collettività. Due personaggi, chiusi in una situazione claustrofobica, aspettano di assolvere un compito che per loro ormai è routine, un lavoro da professionisti, un vecchio scafato, per cui tutto dovrebbe essere chiaro, e uno più giovane che possiede invece molte incertezze. C’è una disfunzionalità costante nei minimi eventi, il gas che non c’è, lo sciacquone del water ad intermittenza, fiammiferi che arrivano in una busta da sotto la porta della stanza che fanno fatica ad accendersi, un tè che non si riesce a fare; c’è una violenza nell’aria che, prima, è trasmessa dalle notizie di cronaca lette sul giornale, e in seguito, in modo esplicito, dalle pistole che ad un certo punto fanno la loro apparizione. Gus è esitante, insistentemente interrogante, preoccupato, inizia ad avere dei rimorsi sul passato, sembra che avanzi delle pericolosissime critiche e provoca il crescente nervosismo del più anziano Ben che probabilmente è già a conoscenza di quello che deve fare. Il giovane si rivela come l’anello debole del sistema. Assurdi messaggi attraverso cui sono ordinati dei piatti da preparare, come in un ristorante che forse c’era una volta in quel luogo, giungono dal portavivande che con il suo rumore cupo e stridente genera ansia e sospetti di pericolo. L’interfono, altro meccanismo che impedisce una reale, fisica, comunicazione, aumenta il sentimento di oppressione. I doppi sensi si accumulano nella geniale sovrapposizione tra la normalità del quotidiano, in un misterioso scantinato, la camera da letto, e quel mondo altro che racconta di cinici omicidi da eseguire con spietata regolarità. È il modello stile Pinter di quello che con un termine fin troppo abusato si definisce la “banalità del male”. E più che mai si può rinviare all’attualità di schermi, computer, intermediazioni social che, a distanza, possono entrare negli ambienti domestici, con il loro carico anche di minacce, pericoli, di abusi nei confronti dei più deboli e inesperti, ma anche in questi casi è facile che il sadico diventi a sua volta vittima.

Nella versione di Luca Spadaro, in scena al Teatro Foce in questo weekend, il testo è seguito, anche nelle note d’autore, piuttosto fedelmente, la scenografia (firmata da Giulia Breno e Eugenia Tartarelli), tra le muraglie grigie delle pareti e i due letti, accosta ermeticità e concretezza. Tutti i significati sono duplicati e così centrale è il ruolo dei dialoghi che rinviano ai gesti che non gli corrispondono, sempre sul punto di dire e non dire, di fare e non fare, le azioni sono annunciate quanto irrisolte, tutto sta per accadere e al tempo stesso non sembra mai succedere nulla. È l’attesa, appunto, di chi deve aspettare degli ordini, eseguirli, privato da ogni controllo sulla propria esistenza. Massimiliano Zampetti (Ben) e Sebastiano Bottari (Gus), riescono a dare, senza troppi guizzi di originalità (ma basta quella di Pinter…, incorruttibile), danno voce e mutismo, ovviamente, alla duellante dialettica, in cui il peso delle parole e dei silenzi si equivalgono.

Pubblico abbastanza numeroso, nonostante diverse concomitanze in città, alla replica di ieri.

Il Calapranzi si replica oggi alle ore 16, Teatro Foce, Lugano

Manuela Camponovo    

 

 

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