Letteratura

“Il fondo del sacco” di Plinio Martini, biografia collettiva di una civiltà al tramonto

Plinio Martini

Un’opera che è entrata nel canone della nostra letteratura: così ricorda “Il fondo del sacco” di Plinio Martini Mattia Pini, giovane ricercatore dell’Università di Friburgo, che questa sera, mercoledì 6 marzo, ha esposto al pubblico dell’Università della Svizzera italiana la figura del grande scrittore ticinese.

Ad accompagnare la sua relazione, il materiale delle Teche RSI: in particolare, una puntata di “Teleopinioni”, andata in onda nel 1989, a dieci anni dalla scomparsa dello scrittore e con ospiti gli Orelli; un’intervista del 1978 di Bruno Soldini e una puntata di “Wrum”, settimanale RSI degli anni Settanta. L’evento si inserisce nel ciclo di puntate di “Archivi del Novecento”, arrivato alla sua seconda edizione e organizzato congiuntamente dall’Istituto di Studi italiani dell’USI e Rete Due.

«Ristampato ben 27 volte dalla sua prima edizione negli anni Settanta, “Il fondo del sacco” è diventato un classico del Novecento. I filoni che lo compongono sono tre: un filone a carattere storico-documentaristico che mette l’accento sul fenomeno dell’emigrazione dei ticinesi di quegli anni; un filone narrativo, che racconta la triste storia d’amore con la fidanzata Maddalena e, ultimo ma non meno importante, un filone polemico-rivendicativo, critico verso quello che accadeva nella Valle nel momento della narrazione, che coincide con il tempo della scrittura».

«Ma forse – incalza lo studioso – il filone privilegiato è quello storico-descrittivo. Come sottolinea l’autore, egli ha cercato di comporre “un racconto il più fedele possibile”, fedele all’interiorità degli uomini e a quel passato rurale della Val Bavona e ai suoi stili di vita. Martini dice, infatti, che gli episodi sono tutti veri, per i quali si è avvalso di un’ampia e rigorosa documentazione, reperita nelle biblioteche pubbliche, negli archivi, tra le lettere dei migranti, non senza approfittare, naturalmente, dei testi di altri studiosi e storici che si occupavano allora della Valle Maggia (ad esempio la “Storia della Valle Maggia” di Martino Signorelli). Le varianti testuali dimostrano del resto la grande cura con cui Martini ha lavorato».

«Martini accenna a un mondo ormai scomparso nelle tradizioni antropologiche, svenduto, e allo spopolamento delle Valli di fronte al progresso. Sono i temi che Martini affronta anche in altro modo, su giornali e riviste. Lo scopo ultimo del romanzo, come amava ripetere, era fare una “biografia collettiva di una civiltà al tramonto”, perché, come dirà altrove, “il mio paese mi è parso una questione urgente”».

E poi c’è la questione del registro linguistico: «Martini, in effetti, ha cercato di dare una patina linguistica tutta particolare al romanzo, opposta a quella colta e quasi gaddiana del “Requiem per zia Domenica”. Nell’intervista dice di aver fatto una “traduzione” dal dialetto. Ma le cose non stanno così, come ci rivelano le varianti testuali. La freschezza del testo è il risultato di un funambolismo linguistico durato almeno 10 anni. L’edizione critica che si sta curando in questi mesi, rivela come nelle prime redazioni non c’erano dialettismi, i quali sono apparsi dopo. Le prime versioni, in certo senso, erano totalmente letterarie. Pensiamo solo al destino del titolo, scelto dopo ben 16 varianti: “Addio Monti”, ”Il prezzo dei dollari”, ”Mamma mia”, “Dammi cento lire”, ”In America voglio andare”, “Gesù, Maria”».

«Ciò non toglie che il testo sia ricco di dialettismi semantici, come dice l’autore: spesso una parola dialettale trova una corrispondenza a quella dell’italiano ma il significato è differente. È il caso di “persona corta” per “persona corta di testa, sciocca”; di “diventare compagni” per “diventare simili, fare le stesse scelte”; di “buoni” per “abbondanti” o di “abbiamo messo la testa assieme” per “abbiamo fatto amicizia” e “attaccare bottone” per “fidanzarsi”. Anche le scelte morfologiche sono curiose: a volte, affinché la lingua ricordi il dialetto, sceglie delle forme che sembrano più arcaiche, ma in realtà sono solo più dialettali: ”danari”, “mezzodì” (che compare in rapporto 5:1 nel testo), “desinare”, “saccoccia”. Si può dunque affermare che la lingua del romanzo in genere è omogenea, in alcuni casi però Martini la caratterizza ancora di più in una certa direzione, o secondo una variante diastratica (secondo l’estrazione di chi parla) o diatopica (stando al luogo dell’azione). L’Oceano è uno spartiacque forte. In America la lingua degli emigrati è molto più neutra: in California si parla di “cimitero”, in Ticino di “campo santo” ad esempio. Senza contare che le parole di estrazione inglese, secondo l’etica romanzo, sono tendenzialmente negative, come “whisky”, “nightclub”, “store” (che si contrappone all’intima bottega di paese). Dunque, il romanzo è ben altro che una mera traduzione dal dialetto, come afferma, cercando di depistarci, Martini. C’è una ricerca sulla lingua che va ben oltre».

Prossimo appuntamento con “Archivi del Novecento”, mercoledì prossimo, 13 marzo, sempre alle 18 in Auditorium USI, con Silvia Zangrandi che parlerà della figura di Dino Buzzati. Programma completo.

Laura Quadri

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