Danza

Il tempo della coscienza con Yasmine Hugonnet

Yasmine Hugonnet, “Chro no lo gi cal”. © Anne-Laure Lechat.

Collari elisabettiani su ampie, ampissime gonne di velluto color melanzana, poi nere. Poi jeans e magliette di cotone generiche. Piedi nudi perché stiamo per assistere a uno spettacolo di danza contemporanea, dove i surplus non vanno per la maggiore. Il palco del LAC, per questo appuntamento del FIT con la danza di Yasmine Hugonnet, ieri sera offriva una prospettiva quasi cinematografica: a fondale trovavi il gradino più basso, tappeti neri puntellati di bianco ovunque, qualche metro più avanti un grosso scalino, ancora qualche metro per un nuovo scalino, e finalmente ecco ricavato un proscenio. Conquistato sin dall’entrata in sala di noi spettatori dalla protagonista della serata, la coreografa e danzatrice di Montreux (ma da anni di casa a Parigi) Yasmine Hugonnet. La quale, appunto, accoglie il centinaio di persone del pubblico avvolta da velluti bordeaux e lo fa in posa plastica; non ci propone la fissità di una statua, diremmo piuttosto un tableau vivant. Ciò che tuttavia colpisce è il suo sguardo, fisso ma non paralizzato e nemmeno perso nel vuoto; perverso, come una trivella che si insinui fra il pubblico e ne mescoli le carte. Arriva poi a sfiorarci con una vertigine allo stomaco l’insospettata ventriloquia di Hugonnet (e Ruth Childs e Audrey Gaisan Doncel, che dopo il prologo in solitaria la raggiungono in scena e non la mollano più).

Chro no lo gi cal è uno spettacolo di nemmeno un’ora che ingloba una consistente serie di archetipi, immagini e suoni che nel corso dei secoli, volenti o nolenti, abbiamo tutti assimilato, e di cui tutti subiamo fascino e/o conseguenze. Per esempio il tema dell’orologio, del tempo che scorre, che qui si dilata affidandosi alla carne di sei braccia femminili abilissime a scandirlo. I corpi delle tre performer, lo capiamo subito, sono strumenti: siamo infatti lontani anni luce dalla glorificazione dei corpi, dalla loro messa in scena meccanica e virtuosa; la loro potenzialità performativa in questa coreografia non è forse nemmeno spinta al massimo. Come sempre accade con Hugonnet, ci ritroviamo in territori sottili, silenziosi, “piccoli”, dove il corpo e lo spirito vanno e vengono lentamente e come possono. Ma precisi. Sono donne vitruviane quelle che ci sfilano dinanzi coi loro volti seri. Sotto capelli biondi, bruni e neri rombano voci antiche, gravi, che parlano lingue a tratti sconosciute. Voci arcaiche che in un battibaleno si fanno agili come uccellini che migrano verso tonalità acutissime, rincorrendosi l’una con l’altra fino al prossimo “quadro”. Arriva anche la nudità. Prima la Hugonnet e a seguire (solo sul finale) Ruth Childs e Audrey Gaisan Doncel, le danzatrici si muovono nello spazio (sapientemente illuminato) libere dal peso del tempo: il tempo (o tempio) dell’eleganza pesante dei costumi rinascimentali, il tempo insipido dell’odierna bulimia del consumo, che insieme al resto sacrifica anche il buon gusto. Il tempo che le tre recuperano è il tempo della lentezza e della bellezza, che passa sempre per l’individuazione dello scopo: usare lo spazio come fosse un elastico, e il tempo come una superficie modellabile, un enorme cubo di creta umida e pronta a buttarsi. Perché? Per inaugurare un viaggio interiore, che è forse (togliamo il forse) l’unico motivo valido per recarsi a teatro. Come? Emulando le gesta di chi, anche scegliendo di tradurlo in arte, sta compiendo un seppur circoscritto viaggio dell’eroe che ci autorizza a volgere lo sguardo dentro le nostre viscere e a sospettare che qualcosa vada ri-azionato. Interrogarci è obbligarlo. Se uno spettacolo ti cambia dentro, è un grande spettacolo. E questo ha in sé quel seme. E forse ieri sera qualcuno quel seme se l’è portato dentro.

Margherita Coldesina

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