Teatro

“Jackie”, una icona del ‘900 al LAC

Una nuova produzione di LuganoInScena è stata anche l’occasione per sottolineare l’attività del LAC nel promuovere i giovani talenti del territorio, offrire loro delle possibilità di crescita, di formazione, anche a lungo termine. Lo hanno sottolineato oggi, nel corso della conferenza stampa, Roberto Badaracco, Capo Dicastero Cultura, Sport ed Eventi e Luigi Di Corato, neo Direttore Divisione Cultura di Lugano. In particolare, quest’ultimo ha anche osservato che è un modo per alimentare la capacità culturale della città e l’interazione tra le varie istituzioni. Così come la “residenza”, cioè gli spazi del LAC per laboratorio, preparazione, studio, sostiene la professionalizzazione del teatro territoriale. Un investimento importante e in prospettiva, per la creazione di un centro di competenza e di scambi più generali.

Carmelo Rifici, Direttore di LuganoInscena, ha quindi parlato della maniera in cui, da quando è arrivato, cinque anni or sono, si è messo alla ricerca di artisti locali, definiti “anime inquiete che non sanno come esprimersi”, registi, attori… E tra questi il giovane Alan Alpenfelt (1982), che ha una sua visione forte, ma che aveva bisogno di allenamento e ha deciso di seguirlo e di dargli la possibilità di frequentare una masterclass, un percorso formativo, affiancandogli Francesca Garolla, autrice e dramaturg. Rifici pensava a tutt’altro per il debutto al LAC, a qualcosa di tradizionale, un classico, ma ha accolto la loro proposta ardita, cioè di mettere in scena Jackie dell’austriaca Elfriede Jelinek, Nobel 2004, un testo poetico, ma “estremamente antiteatrale”. Questo però è considerato l’inizio di un percorso e c’è già un prossimo titolo: Casa di bambola.

Quindi la parola è passata al regista, dopo i dovuti ringraziamenti, le considerazioni sul LAC appena costruito che per lui rappresentava un mito e sul fatto di poterci essere, ora, Alpenfelt

Alan Alpenfelt.

ha dichiarato un “regalo fondamentale” l’anno di formazione che gli è stato offerto, un percorso di apprendistato che gli ha permesso d’incontrare maestri della regia come Latella o Emma Dante, vedere spettacoli, di viaggiare in Svizzera, in Europa, persino andare a fare un laboratorio a Singapore, sostenuto anche da Pro Helvetia, approfondire, avere scambi, contatti, un lavoro “difficile e pericoloso”, perché si è trattato di liberarsi dalle forme conoscibili, un inizio anche per lui di un percorso lungo, ma indispensabile per capire cosa lo spinge ad essere artista.

E poi la scelta di questo testo che rientra nella sua necessità d’indagare il rapporto tra oppresso e oppressore, le conseguenze e che tipo di strategie la vittima può mettere in atto per superare la violenza da cui non si riesce mai ad uscire completamente. Nel frattempo la cronaca portava alla ribalta il caso Weinstein e le reazioni delle donne. La donna costantemente oppressa, nella sua storia (la tesi di Jelinek), perché nasce all’interno di un sistema maschile, che possiede il linguaggio e il potere che divorano la vittima che, a sua volta, deve trovare una strategia per sopravvivere. Attraverso una figura famosa, una icona del ‘900, si mette in scena il ruolo della donna. Il testo – ha spiegato il regista – fa parte di una collezione che l’autrice ha dedicato alle Principesse, in risposta ai “drammi del re”, non regine, perché donne-ombra, prive di potere reale.

Chi era dunque Jackie? Una donna intelligente che a 22 anni avrebbe potuto diventare direttrice di Vogue, invece la famiglia l’ha spinta a sposare John Kennedy, rinunciando alla carriera, pe diventare moglie e madre, first lady, sempre un passo indietro al marito e a rivestire un modello di perfezione americana. Ma se le cognate sono diventate delle produttrici di figli e non hanno fatto una bella fine, Jackie invece mette in atto delle strategie per sopravvivere, lei che è circondata dalla morte (tre dei suoi figli muoiono, le muore il marito e il cognato, Bob) diventa architetto della morte, sua la regia del funerale di Kennedy, per cui sceglie i colori, il cavallo, sempre attentissima all’immagine che vuole dare di se stessa, quindi all’opinione pubblica, “metro di misura dei potenti”, per potersi trasformare appunto in una icona, “prigioniera del suo elegante completo Chanel macchiato di sangue e materia cerebrale” (che, sottolinea il regista, non ha voluto cambiare).
Ma lo spettacolo, pur in questo assunto funebre, è ironico e anche divertente, pop, comunicativo e corale. Tutto al femminile e intergenerazionale, quattro le donne che danno voce alla protagonista, di quattro fasce d’età differenti: Caterina Filograno, Francesca Mazza, Anahì Traversi, Carlotta Viscovo. Ci sono musiche originali eseguite dal vivo da Elena Kakaliagou e Ingrid Schmoliner (cornista e pianista: la sfida è stata quella d’interagire con le parole in italiano, una lingua che non conoscono; la musica è importante per parlare ad un livello differente, rispetto a quello che possono fare la logica e la razionalità). Scene, costumi, luci, pure firmati da donne (Annelisa Zaccheria e Fiammetta Baldiserri, coreografia di Francesca Sproccati (anche lei ticinese, messa sotto l’ala del LAC), drammaturga Francesca Garolla. Il video è invece di Roberto Mucchiut.

Abbiamo chiesto al regista: Jackie ha strumentalizzato il suo ruolo di vittima? Alpenfelt: “questa è la Jackie di Jelinek, quindi non una biografia fedele”, l’autrice, segue la sua ideologia femminista, quella delle principesse, che considera una condizione di pre-stadio rispetto ad una femminilità compiuta, una femminilità che non ha ancora avuto la possibilità di prendere una forma definitiva. Non ha un linguaggio in cui esprimersi, perché la lingua è quella dell’uomo, punta dunque tutto sull’immagine, l’apparenza. Alpenfelt usa il testo per portare in scena “la narrazione di una persona che è stata privata della sua dimensione umana, costretta in un ruolo definito, da un contesto di potere e controllo che le ha gradualmente sottratto il suo potenziale di libertà e di indipendenza, le sue capacità fisiche, i suoi desideri e le sue ambizioni”.
In scena al LAC il 12 e 13 marzo, ore 20.30.

Manuela Camponovo

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