Letture manzoniane

La peste manzoniana: flagello ineffabile, baccante invisibile, male palese

«In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro» (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. XXXI). 

 

‘Peste’: è questa la parola che «non si può più mandare indietro», perché non appena la si pronuncia il male si manifesta, la paura prende il sopravvento, e si dà letteralmente un nome a quel flagello indicibile che, nel 1629, decimò la popolazione del Ducato di Milano. La parola come personificazione del male, ma anche come cura personale: su questo ha riflettuto, ieri sera, il professore Stefano Tomassini – nell’ambito delle Letture manzoniane promosse dall’Istituto di Studi Italiani dell’USI – trattando dell’inedito genere della “lettera della peste”, e soffermandosi in particolare sull’epistolario di Claudio Achillini e Agostino Mascardi.

La popolazione e le autorità mediche e politiche del tempo, non avendo la forza e i mezzi per affrontarlo, negarono l’esistenza del morbo, ponendosi in una posizione «spettatoriale», così l’ha definita il Prof. Tomassini, espressione che ben esemplifica quella generalizzata tendenza a ignorare il male, senza agire e reagire. Al contrario, per il poeta marinista Claudio Achillini e lo storico Agostino Mascardi la scia di morti che ha portato con sé la peste è «occasione o di scrivere o di ragionare ai fini dell’eterno profitto». Ed è così che la parola non è più solo il mezzo per portare alla fama, alla sopravvivenza di un nome, di un uomo, ma è un'”arma” per reagire al male e alla tragedia, proprio come fece Talete, ricorda Mascardi, che «a suon di lira domò la malignità della peste», o come il Cardinale Bernardino Spada, replica Achillini, che «intrepido tra’ lazareti» e «invitto tra le sepolture» ha «chiusa la bocca a i sepolcri, e la sanità s’è arrischiata di ripatriar con noi». Si tratta chiaramente di un’iperbole tipica barocca, ma ciò che è importante è che viene esaltato l’esempio di chi agisce cercando di cambiare il corso degli eventi. Quando non è possibile farlo, bisogna allora essere forti: quando lo storico ammette che «la perdita degli amici» gli «divelle il cuore dal petto, e l’anima dal cuore», il poeta ricorda lui «voi solo siete a voi stesso sufficiente teatro per trattenervi e per consolarvi».

La peste è «un’ultimissima scuola, in cui s’apprendono i segreti della caducità de’ mortali, e i misteri della nostra fragile, e sempre vacillante natura» (Agostino Mascardi), «flagello ineffabile agitato dalla mano di Dio» (Claudio Achillini), «baccante invisibile» (Carlo Orrigoni), male manifesto, secondo Armando Morando, che in una lettera inveisce contro i presunti untori, rei di aver «dilatata la peste non solo furtivamente, ma in palese, e quasi in publico, ed in faccia dalla giustizia medesima». Il relatore si è poi soffermato sulla “democraticità” della peste che colpisce «le case tanto de’ nobili come de’ privati» così come «vergini zitelle, o spose, o vedove, o maritate» o madri, i cui figli vengono allattati da «rozza capra», che diventa così «baia eletta» (Carlo Orrigoni in I furori della peste di Milano, 1631).

Le lettere ricordate nell’interessante conferenza mostrano la verità indicibile di un’esperienza: l’ambigua reticenza nei confronti della nominazione del male, l’obbligo della preservazione, la paradossale necessità della parola come cura domestica, il timore della stessa “parola” (Don Lorenzo Tasca teme che persino le lettere che scambia con il fratello Annibale possano propagare l’«humore venefico»), e il suo incontestabile potere. «La realtà è più immediata se è mediata», ha ricordato il Prof. Tomassini: la scrittura è mezzo per riflettere, mettere a fuoco una realtà, indignare e commuovere; sentimenti che spesso non proviamo senza tale mediazione, essendo abituati a reagire freddamente agli orrori del presente.

Lucrezia Greppi 

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