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La rivolta ungherese, tra Nagy, Kádár e Andropov

23 ottobre-11 novembre 1956: i giorni drammatici della rivolta ungherese repressa nel sangue dai sovietici. 2700 i morti; cento volte di più i rifugiati ungheresi che chiesero asilo in Occidente dopo un tentativo di sollevazione popolare. Il Cremlino non poteva permettersi insurrezioni che andassero contro la politica estera che l’URSS aveva deciso per i paesi satelliti. Non c’era spazio per decisioni autonome; dunque, la ribelle Ungheria andava punita e normalizzata. 60mila truppe sovietiche stazionarono in Ungheria dal 1948; furono Vjačeslav Molotov e l’area stalinista a fare pressioni su Nikita Krusciov per l’intervento in terra magiara. E nella notte tra il 3 e il 4 novembre, iniziò l’operazione Turbine – cinquemila carri armati sovietici e settantacinquemila uomini. In 22mila ungheresi furono processati 16mila prigionieri. L’inviato del Corriere della Sera Indro Montanelli da Vienna si precipitò a Budapest.

Mandò questa corrispondenza: «Compresi che quella rivolta non veniva combattuta in chiave anticomunista, nel nome degli ideali borghesi […]. No, era una rivolta fatta da comunisti contro lo stalinismo, ma […] era la rivolta di un intero popolo contro lo spietato “socialismo reale”». Di tutt’altro avviso era Palmiro Togliatti: «I ribelli controrivoluzionari hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi se stessa com’è suo diritto sacrosanto». Il 1956 fu un anno travagliato per l’universo comunista europeo. Il 14 febbraio iniziò il ventesimo Congresso del partito comunista dell’URSS e Krusciov aveva lanciato un atto di accusa nei confronti dei crimini di Stalin. A fine giugno, a Poznań, scoppiò una protesta degli operai che volevano aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro.

L’Unità affermò che l’insurrezione non era emersa spontaneamente. La Pravda disse che era le responsabilità dell’insurrezione polacca erano americane. Il 6 ottobre nelle piazze di Budapest si commemorava la morte di László Rajk, il leader comunista scomparso nel 1949. A Seghedino, una decina di giorni dopo, all’università gli studenti manifestarono contro lo studio in lingua russa. Il 22 ottobre scrissero un programma di quattordici punti per chiedere l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia. Il 23 ottobre i cittadini scesero in piazza. Il Partito Comunista Ungherese ordinò ai giovani di andare a casa. Imre Nagy fu nominato primo ministro e tra gli elementi programmatici per un socialismo “diverso” intendeva fare uscire l’Ungheria dal patto di Varsavia. L’Unità affermò che i sovietici erano costretti a intervenire per porre fine all’anarchia.

I carri armati fecero macello a Budapest. Le operazioni erano dirette da Yuri Andropov – che quando arrivò al Cremlino decenni dopo sarebbe stato accreditato dall’Occidente come un uomo di pace, un riformatore. János Kádár, amico di Andropov e già ambasciatore in Ungheria, formò un nuovo governo filosovietico. Kádár si riciclò come esponente del socialismo dal volto umano. Il 15 agosto 1952 viene incarcerato per atteggiamento “filo-jugoslavo” e venne liberato proprio da Nagy (di cui era stato viceministro in un precedente governo). Segretario generale del Partito Comunista Ungherese dall’ottobre 1956, sarebbe stato estromesso dal partito trentadue anni dopo. A fine novembre 1956 Nagy venne arrestato e condotto in una fortezza a Sinaia. Sarà condannato il 6 giugno 1958 dopo un processo-farsa ed impiccato. Nella sua ultima notte, Nagy passò il tempo a scrivere una lunga lettera alla moglie.

Tutto quello che la signora ottenne dalla prigione era la fede nuziale del marito che poi si rilevò falsa. Nagy voleva un socialismo democratico, ma la sua apertura politica ad un sistema multipartitico non fu digerito da Mosca. Tuttavia, il sentimento di riformismo economico rimase nell’Ungheria – si parlò di comunismo al gulash per indicare le differenze in questo ambito rispetto agli altri paesi del Patto di Varsavia. La rivolta ungherese del 1956 ebbe vita breve. Avvenne all’insegna del socialismo e della libertà. «Dovevano trascorrere molti anni perché anche i comunisti italiani riconoscano il valore democratico di quella infelice battaglia combattuta a Budapest», ha scritto Miriam Mafai nella prefazione al libro di corrispondenza di Montanelli sulla rivolta ungherese, La sublime pazzia della rivolta.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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