Commento

L’analisi di Kaplan sulla nuova Weimar globale

«Stiamo vivendo l’equivalente di una seconda Repubblica di Weimar»: è questa la tesi portante di Il secolo fragile (Marsilio 2025) di Robert D. Kaplan. Convinto che solo attraverso un’analogia con il passato si possa comprendere la crisi del presente, l’autore si avventura in un’analisi tra storia e geopolitica. L’odierna instabilità non sarà più mitigata dall’azione delle grandi potenze, il cui declino Kaplan descrive alla luce della dissoluzione degli imperi e della fine dell’ordine emerso nel Dopoguerra. Mettendo insieme le lezioni apprese sul campo come osservatore e corrispondente dall’estero e intuizioni filosofico-letterarie, traccia connessioni tra eventi storici e fenomeni sociali, spaziando dalla Rivoluzione russa del 1917 a quella islamica in Iran. Dalla Guerra fredda al possesso delle armi nucleari rivendicato oggi da dittatori e autocrati. Questa nuova Weimar globale è destinata al tragico epilogo di quella storica?

Kaplan invita a esercitare un prudente pessimismo per non cadere preda di false speranze. «Il segreto è fare un uso costruttivo delle nostre paure, in modo da essere cauti nei confronti del futuro senza doversi arrendere al destino». Mentre traccia sinistri paragoni con le opere di Christopher Isherwood e Alfred Döblin, l’autore dipinge una realtà globale equamente nevrotica e grottesca, inquieta e decadente. Dovremmo pensare a Weimar in termini mondiali. Non solo nel senso di un indebolimento della democrazia americana, sostiene Kaplan. Stiamo correndo a testa bassa verso un futuro scintillante, ma privo di anima. La tecnologia ci ha resi allo stesso tempo padroni e vittime. Di rado la politica è stata globale in modo così intenso e significativo. Il mondo è frammentato, ma determinato anche da una crescente interdipendenza. Dovremo affrontare un susseguirsi ininterrotto di emergenze che si diffondono e rimbalzano.

Oggi ci sono diverse democrazie weimariane. Winston Churchill mise il problema di Weimar in una prospettiva più ampia. I nazisti erano giunti al potere in un vuoto pneumatico di ordine generazionale. Le dinastie reazionarie e corrotte potevano godere di un potere che durava da secoli. Che aveva il sigillo della stabilità e della legittimità. Essendo intrinsecamente legittime, le loro crudeltà, frutto di tendenze autocratiche, potevano essere contenute all’interno di un perimetro accettabile. Forme di governo dittatoriali, ma non totalitarie. Che proteggevano le minoranze e lasciavano un minimo spazio di azione politica alle opposizioni. Kaplan sostiene che Stati moderni aggressivi e instabili democrazie monoetniche sono il risultato dei regimi emersi dal vuoto lasciato dall’autorità monarchica. L’ordine, infatti, precede sempre la libertà, perché senza ordine non c’è libertà per nessuno. La Repubblica di Weimar, priva dell’ordine indispensabile, divenne una minaccia alla libertà.

La democrazia di Weimar si rivelò incapace di agire come dispositivo di sicurezza contro la Germania nazista, mentre gli Hohenzollern sarebbero stati all’altezza del compito se al termine della Grande Guerra fossero rimasti al loro posto. L’antichissima tradizione delle monarchie era un fattore di stabilizzazione dei sistemi di governo. La libertà ha reso sempre più concreta la possibilità di nuovi sconvolgimenti. Siamo convinti di avere un sistema valoriale moralmente più progredito, poniamo enfasi su questioni come i diritti umani e l’ambiente, ma nessuna di queste cose ci è d’aiuto rispetto alla stabilità di un sistema globale posto sotto attacco da interessi contrastanti, fomentati dall’aggressività di dittature come Russia e Cina. La fine del vecchio mondo, con la stabilità delle sue tradizioni, ha permesso l’ascesa di movimenti votati all’astrazione e all’utopia – dai nazisti ai bolscevichi, dai Khmer rouge agli ayatollah.

«In questa nuova Weimar geopolitica, mentre il potere monarchico – fatta eccezione per la penisola araba, con i suoi re, sultani ed emiri – è scivolato nell’oblio, l’eredità del totalitarismo, in particolare del comunismo, resta viva e soffocante, contribuendo alla nostra instabilità di base», sostiene Kaplan. Sebbene il comunismo in Europa sia morto nel 1989, il disastro politico e spirituale che ha provocato non è ancora svanito. Ed è un vettore centrale nella nostra crisi permanente. Nel mondo di oggi c’è sufficiente massa critica per generare un vero e proprio cataclisma planetario, avverte l’autore. Si verificherà un’accelerazione dei collegamenti, della prossimità. La geografia non sta scomparendo, si sta solo restringendo. Nessuna istituzione sovranazionale può rimpiazzare l’interesse nazionale dei singoli Stati. Non conosciamo quali siano i confini di una guerra informatica e dell’informazione. Presto, però, gruppi criminali o certi Stati potrebbero far crollare un mercato azionario o un sistema di distribuzione dell’energia elettrica.

È un paradosso perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia. Nel corso dei secoli l’umanità è diventata progressivamente meno violenta, una tendenza destinata a proseguire. La guerra si adatterà a qualunque cambiamento la tecnologia, l’economia, le abitudini sociali o politiche possano avere in serbo. Ma la storia avanza senza tregua, in un intreccio di accidenti locali e internazionali, senza lasciarci il tempo di prendere fiato. Il potere di una nazione, che deriva dalla posizione geografica, dalle risorse naturali e dalla sua forza economica, dipende pure dalla capacità di giudizio di chi la guida. Kaplan scrive che l’America è in declino, ma resta un colosso potentissimo grazie agli oceani. L’America non è solo geograficamente fortunata, ma è pure tecnologicamente superiore alla Cina, grazie alla sua società libera e alla conseguente inclinazione al dubbio e al rischio.

La Cina condivide a Nord un lungo confine con un suo nemico storico. A Sud con altri due nemici storici. A est ha di fronte una muraglia marittima di paesi ostili, favorevoli agli Stati Uniti. La Russia si trova in uno stato di decomposizione ben più avanzato. Una vittoria russa in Ucraina potrà avvenire solo attraverso un impiego massiccio e brutale di truppe e materiale. Se Mosca non avesse invaso l’Ucraina, ma ne avesse negoziato la neutralità da una posizione di forza, probabilmente la Russia sarebbe ancora percepita come una grande potenza, ricorda Kaplan. «Se il declino americano è in termini relativi sottile e qualitativo, caratterizzato dall’estremizzazione dei due principali partiti politici, dalla periodica esplosione di tensioni razziali, dalla messa in discussione degli standard culturali […] il declino di civiltà della Russia è basilare e quantitativo: è priva di istituzioni funzionanti e di qualunque sistema di ricambio della leadership».

È probabile che l’eventuale caduta di Vladimir Putin porti all’anarchia invece che a una democrazia stabile. I pericoli della post-autocrazia sono reali. La stabilità dell’Europa continuerà a essere minata dalla Russia. L’era post-putiniana a Mosca potrebbe essere pericolosa quanto la condizione attuale. La Russia è uno Stato dalle istituzioni deboli, a differenza della Cina. Potrebbe diventare una versione light dell’ex Jugoslavia. A un’estremità di questo mondo bipolare troviamo Stati canaglia come la Corea del Nord. Quindi uno Stato rivoluzionario e terrorista come l’Iran teocratico. Questi nemici sono ben più pericolosi e per certi versi più nichilisti della vecchia URSS e della Cina di Mao Zedong. I leader sovietici erano tendenzialmente conservatori e poco propensi al rischio. E l’Occidente? Kaplan mette le mani avanti. Dovremmo fare attenzione a come definiamo la nostra parte.

Sarebbe sbagliato autodefinirci il mondo delle democrazie, non solo perché un sentimento come l’antisemitismo si è radicato proprio all’interno delle democrazie. Ma anche perché tra gli alleati degli Stati Uniti ci sono autocrazie conservatrici – come Giordania ed Egitto. L’isolazionismo è il passato, l’immersione totale in un mondo caotico è il futuro inevitabile. Nell’ultimo capitolo del libro Kaplan dice che il cambiamento fondamentale nella geopolitica è l’urbanizzazione, con l’intensificazione della politica che essa comporta. Le democrazie postmoderne affondano le loro radici nel cosmopolitismo della vita urbana, sebbene i politici facciano costantemente appello all’entroterra agricolo. Il web nel suo insieme è una città. La società di massa incombe su di noi in un modo che non avremmo mai immaginato. La nuova geografia mondiale è più minacciosa di quella passata. E più destabilizzante in termini di eccitabilità dell’opinione pubblica. Kaplan dedica diverse pagine a Oswald Spengler.

Der Untergang des Abendlands è una critica alla specializzazione e un’impareggiabile celebrazione dell’istruzione multidisciplinare. L’accademia tedesca, con la sua enfasi sulle credenziali, disprezzava questo ex professore di scuola superiore che prima della fama viveva in povertà e solitudine e tornò a isolarsi durante il regime hitleriano. Eppure, con il passare dei decenni la chiaroveggenza del suo lavoro è sconcertante. Fu stigmatizzato e incompreso da tutti. Dai liberali ai conservatori ai nazisti. Spengler vedeva il declino culturale in qualsiasi cosa. Per Spengler la città è il mondo. E secondo lui, l’accumulo di possedimenti imperiali porta alla decadenza e al declino. Oggi la massa urbana raramente s’incarna in una massa fisica. Questo tipo di massa è il nemico supremo della libertà, dal momento che il suo obiettivo è l’annientamento del pensiero individuale. Il futuro sarà dominato da folle di vario tipo, che si formeranno e scioglieranno per effetto di tecnologia ed urbanizzazione.

L’età porta con sé la memoria di una cultura e delle sue tradizioni, su cui la gioventù deve essere istruita. Mettere la gioventù su un piedistallo significa distruggere la civiltà, spiga Kaplan. Ed è esattamente ciò che stanno facendo i mezzi di informazione e la pubblicità. Roger Scruton sosteneva che il conservatorismo si basa sull’idea secondo cui la casa, il focolare domestico e la tradizione sono le ancore sociali che ci impediscono di diventare «individui atomizzati, dal passato sterile, di vivere come formiche nei loro gusci metallici e funzionali». Tuttavia, quel che Spengler non riesce a cogliere è che esiste una progressione, oltre l’arte e la cultura europee, che non è necessariamente decadente. Questa progressione, proprio nel suo essere astratta e capace di abbracciare anche altre tradizioni, si muove in direzione di un’estetica universale. Che è testimonianza diretta di un mondo più compresso e più connesso.

Nell’ultima parte del volume Kaplan presenta i punti salienti di una serie di autori illuminati. In Massa e potere Elias Canetti ha esplorato la solitudine in tutte le sue forme e da ogni angolazione. La massa nasce dal bisogno dell’individuo solitario di uniformarsi agli altri. L’individuo solo vuole perdersi e sfuggire al proprio isolamento mescolandosi agli altri. Il desiderio della massa è quello di aumentare di dimensioni, di salvare gli altri dalla solitudine. José Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse, scrive che «si è impadronito della direzione sociale un tipo d’uomo a cui non interessano i principi della civiltà». Albert Camus ne L’uomo in rivolta: «La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta, e questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustificazione». Kaplan spiega che la sua tesi è che più la civiltà urbana postmoderna ci costringerà a diventare conformisti.

Amedeo Gasparini

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