Cinema

Largo ai giovani (a parte i soliti Dardenne): meritatissima la Palma d’oro per il fulgido talento del sudcoreano Bong Joon-ho

Dopo sette lungometraggi (più qualche corto) il talento più fulgido della hallyu, la new wave sudcoreana di inizio millennio, arriva alla Palma d’oro. La prima per il suo tormentato Paese. Bong Joon-ho, autore di Parasite, è il vincitore della 72esima edizione di Cannes Film Festival. Un regista che non si è mai tirato indietro di fronte ai più gravi misfatti della storia della sua Corea, rivisitati In chiave di poliziesco, con l’indagine negli anni della dittatura di Memories of Murder, e di allegoria, attraverso il mostro fluviale di The Host, il successo planetario che lo ha rivelato all’attenzione mondiale. Ma l’autore che oggi arriva al premio più ambito ha vissuto una breve parentesi hollywoodiana, in chiaroscuro, e ha sviluppato un linguaggio ricco, accessibile a un pubblico più vasto. Raramente i verdetti di Cannes sono stati unanimemente apprezzati come questo, visto che Parasite ha conquistato tutti, dal presidente di giuria Alejandro González Iñárritu all’ultimo degli accreditati. Una storia surreale e grottesca, nello stile ormai tipico di Bong, che parte da un dato di fatto della società sudcoreana: l’enorme divario sociale che separa irreparabilmente i ricchissimi dai nullatenenti, qui rappresentati da due famiglie che portano i cognomi più comuni di Corea, Park e Kim.

Restano fuori dal palmarès alcuni dei nomi più attesi, tra cui veterani come Almodovar (si deve accontentare del premio per il miglior attore, che va ad Antonio Banderas), Loach o Malick, giovani di belle speranze come Xavier Dolan, l’unico italiano in gara (Bellocchio), e naturalmente Quentin Tarantino, il cui Once upon a Time in Hollywood ha diviso la critica come mai prima d’ora. Solo i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, da sempre prediletti dal Festival di Cannes e due volte vincitori della Palma, si aggiudicano ancora la migliore regia per Le jeune Ahmed.

Per il resto largo ai giovani, a nomi nuovi destinati a un futuro radioso nel cinema d’autore. Come la 37enne Mati Diop, il cui Atlantiques, racconto di migranti sospeso tra realtà e fantasia, si aggiudica il secondo premio per importanza del palmarès, il Gran Premio della giuria. O Ladj Ly per Les misérables, al suo primo film di finzione – racconto di rabbia con protagoniste le infuocate banlieues parigine – che condivide il Premio della giuria con Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles – durissima storia di resistenza, morte e vendetta in un Brasile che ricorda molto da vicino quello governato da Jair Bolsonaro. O ancora come Céline Sciamma, giovane promessa del cinema francese, che in Portrait de la jeune fille en feu dimostra di avere già la stoffa per realizzare un capolavoro: il suo racconto di amore romantico e disperato, in una società maschilista come quella del XVIII secolo, è toccante, appassionato e straordinariamente interpretato dalle due protagoniste. Il premio per la migliore attrice va però a Emily Beecham, interprete pregevole del deludente Little Joe di Jessica Hausner, elegante ma algida riproposizione di un canovaccio consunto come quello di L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, di cui Little Joe rappresenta l’ennesimo quasi-remake sotto mentite spoglie.

Nel complesso la settantaduesima è stata un’edizione attenta ai sommovimenti del nuovo cinema d’autore, ricca di scelte non banali e, per una volta, contraddistinta dal verdetto di una giuria attenta e coraggiosa come quella presieduta dal due volte premio Oscar Iñárritu.

Emanuele Sacchi

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