Teatro

Le ombre di “Democracy in America”

©Marie Clauzade.

Pubblico delle grandi occasioni, ieri al LAC per uno dei più discussi e significativi talenti del teatro europeo, Romeo Castellucci che, dopo la Lectio Magistralis della scorsa stagione ha portato uno spettacolo che aveva debuttato in Italia nel 2017. La rappresentazione di Democracy in America è stata preceduta dalla proiezione del documentario Theatron di Giulio Boato, alla presenza dei due registi, davanti ad una platea formata soprattutto da addetti ai lavori, cioè persone coinvolte per studio o professione nell’attività del palcoscenico, come sempre quando si tratta di iniziative che non percorrono strade di facile consumo. (quindi non si sa fino a che punto questo tipo di offerta possa far crescere il pubblico e renderlo più consapevole, come afferma il direttore di LuganoInScena, Carmelo Rifici).

Giulio Boato ha seguito per due anni Castellucci durante le prove delle sue produzioni, ha cucito insieme immagini molto suggestive e artistiche e voci di colleghi registi o critici, studiosi e interpreti che parlano del “loro” Castellucci, a partire dalla sorella Claudia che ha raccontato gli anni dell’infanzia, della formazione e della condivisione e di come gli inizi siano stati caratterizzati dalla visione, dallo sguardo, dal disegno e, in seguito, dalla riflessione sul linguaggio, due aspetti che caratterizzano da sempre il lavoro di questo regista, spingendolo alle sue estreme conseguenze. Le radici nella tragedia greca, antica e contemporanea, perché rappresenta la vita umana nel suo sostanziale significato che va oltre il dato realistico. Quindi usare l’attore come corpo, come elemento tra gli elementi, animali e bambini perché è l’innocenza non cosciente di essere su un palcoscenico, corpi mutilati, feriti, segnati in modo provocatorio e anche il linguaggio emblematizzato attraverso la patologica afasia. Dismisura, mancanza e un Agamennone “mongoloide” (Castellucci non ha paura delle parole): l’intento è sempre quello, di fronte alla convenzionalità del vedere che rende ormai ciechi, per lui c’è la necessità di dare una scossa, di suscitare sorpresa, di cambiare l’occhio di chi fa, come di chi vede, di seminare veleno, come di rovesciare liquidi raccapriccianti che invadono il palco, di “sporcarlo”, in tutti i suoi strumenti, come il filmato ci mostra, soffermandosi sulle scene dei vari spettacoli che hanno contraddistinto la carriera di Castellucci che insegue la forma contemporanea del tragico, per recuperare di senso la vicenda umana. Da qui l’interesse per le tragedie e anche la serie di Endogonidia. Immagini dopo immagini, fino agli anni più recenti.

Dopo, lo spettacolo nella Sala del LAC. Perché Democracy in America che, evidentemente, rimanda alla poderosa opera di Tocqueville? L’intento non è stato politico, pura coincidenza il rimando all’attuale situazione, Castellucci, come aveva dichiarato poco prima, era stato attratto dal titolo, potente. In effetti di Tocqueville, nella rappresentazione, resta il titolo o poco più, essa non fa riferimento a quella grandiosa opera ottocentesca, in realtà, ma alla visione di Castellucci, rispetto ancora al linguaggio e rispetto al motivo religioso, all’Antico Testamento che da sempre lo affascina, perché in esso popolazioni hanno trovato fondamento per un discorso sull’uguaglianza quanto sulla violenza, sul destino e sull’ambiguità della condizione democratica, tale da svelarne il “cuore di tenebra”.

All’inizio, centrale, è il motivo della glossolalia, le fonazioni ignote quanto incomprensibili considerate emanazioni divine, ancora una volta ricerca sul linguaggio nei suoi aspetti estremi e deformanti. Poi la formazione coreografica di donne saltellanti (il cast è interamente femminile) in abiti allusivamente militareschi muniti di campane metalliche che, tra suoni e fragori, si fermano a tratti per aprire le loro bandiere, sulle quali campeggia una delle lettere che forma il titolo. Democracy in America è quindi tutto, tutto quel dizionario di parole che, a combinazione variabile e anagrammatica, ricollegate insieme, può determinare qualsiasi significato congruente al nostro mondo: Army come Cocaina e poi la serie di nazioni che si possono scrivere con quelle lettere, Canada, Macedonia, Iran, Yemen… Non si può che ammirare la perfetta, geometrica, matematica sincronizzazione dello sviluppo di questa idea.

La scena seguente, si apre su una coppia di nativi che dialoga sul senso del linguaggio: strumento di comunicazione quanto di potere, di identità e di oppressione (le didascalie spesso risultano illeggibili). Quindi si passa alla scena centrale costituita dalla coppia di contadini (Giulia Perelli e Olivia Corsini). È lei Elizabeth che mette in questione il rapporto con Dio, quell’Antico Testamento preso alla lettera e la promessa tradita di una terra che non dà frutti, nonostante il duro lavoro, che li ha ridotti alla fame. Quindi la rabbia fino alla blasfemia nei confronti di quell’entità trascendente che non li ascolta più, che è assente (e questo è un tipico concetto da tragedia greca che accompagna l’arte di Castellucci, in Tocqueville la riflessione sulla religione è tutt’altra cosa, egli, ateo, nel confronto con la Rivoluzione francese che voleva sopprimere del tutto la pregiudiziale religiosità, ne constata in America il contributo positivo nell’espressione di libertà attraverso la partecipazione e l’associazionismo). Ma qui siamo in un altro contesto temporale, più antico: quindi la donna è destinata a venire giudicata e condannata dalla comunità.

La scena successiva ha una dinamica visionaria e mistica, dove protagonista diventa il corpo, accusato e denudato. Le didascalie indicano la cronologia di quell’alternanza di congressi costitutivi e battaglie che hanno portato alla formazione legislativa degli Stati Uniti d’America. Restano vittime soggiogate le popolazioni di nativi e di contadini. Si chiude con una luminosa e aerea parabola, a morale estetica.

Lunghi applausi, persino qualche acclamazione, ma colto al volo, uscendo, anche un “noiosissimo”. Questa non è certo la rappresentazione più riuscita di Castellucci, formata da troppi elementi che mischiano l’onirico trascendente con il didascalico e tutti gli interessi del regista (da quelli linguistici a quelli religiosi) in un calderone non ben delineato, fine a se stesso. Le proiezioni di frasi in un teatro come il LAC (alla stregua dell’acustica difettosa) non aiutano a mantenere sveglia e concentrata l’attenzione.

Si replica oggi alle 16.

Manuela Camponovo

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