Negli ultimi sessant’anni una certa intellighenzia radicale ha orchestrato una sistematica demolizione delle fondamenta culturali dell’Occidente. Non una normale critica intellettuale, ma un vero e proprio progetto di dissoluzione che, sotto la maschera della sofisticazione teorica, ha prodotto effetti devastanti sulla coesione sociale, sulla fiducia nelle istituzioni democratiche, sul libero mercato, sulla capacità dell’Occidente di difendere i propri valori. Il nemico dichiarato è la libertà e il sistema sociopolitico liberaldemocratico che ne garantisce, con tutti i suoi difetti, la migliore applicazione finora sperimentata. Il Sessantotto ha rappresentato il momento decisivo in questa trasformazione. Herbert Marcuse aveva fornito la cornice teorica necessaria. Michel Foucault, con le sue genealogie del potere, aveva offerto gli strumenti analitici per decostruire l’autorità. Jacques Lacan aveva completato l’opera psicanalizzando la rivoluzione stessa. Quando però la rivoluzione politica è fallita, i rivoluzionari non si sono arresi.
Si sono rifugiati nell’accademia, trasformando gradualmente parecchie università in centrali operative per quella che Antonio Gramsci aveva chiamato la lunga marcia nelle istituzioni. Daniel Cohn-Bendit, Antonio Negri, i situazionisti francesi, i Weathermen americani … Tutti hanno seguito lo stesso percorso dalla guerriglia urbana alla cattedra. La violenza fisica è stata sostituita dalla “violenza simbolica”, le molotov dai paper, le barricate dalle commissioni universitarie. L’obiettivo, tuttavia, è rimasto identico: distruggere la società borghese dall’interno, applicando al rovescio il concetto di “egemonia culturale”. Gli epigoni di Gramsci hanno utilizzato quella teoria per conquistare l’egemonia culturale e demolire la società borghese. L’operazione pare riuscita. Molte università sono diventate il quartier generale di questa rivoluzione culturale. Interi dipartimenti di studi culturali, gender studies e post-colonial studies hanno trasformato l’accademia in una fabbrica di militanti antioccidentali.
Professori che non hanno mai letto una pagina di economia – se non quella fantasiosa marxiana – predicano contro il capitalismo. Docenti che ignorano la storia islamica insegnano che ogni critica all’Islam costituisce razzismo. Cattedratici che ignorano il problema del terrorismo Hamas e teorizzano la resistenza palestinese. Dietro le sofisticate teorie post-strutturaliste si nasconde sempre la stessa ossatura marxista. Ovvero, la volontà di creare una divisione manichea del mondo in oppressori e oppressi, la riduzione di ogni fenomeno culturale a rapporti di forza e di sesso, la negazione di ogni valore universale in nome di una lotta di classe allargata a tutte le identità possibili. Negri, ad esempio, aveva aggiornato il marxismo sostituendo il proletariato con la “moltitudine” e l’imperialismo economico con quello culturale. Bell Hooks ha trasformato la pedagogia in un’arma di indottrinamento anti-bianco, facendo dell’educazione un campo di battaglia identitario.
Anche quando sembrano aver superato Karl Marx, questi pensatori ne conservano l’impianto fondamentale: l’odio per il mercato, la diffidenza verso la democrazia liberale, la nostalgia per una società reazionaria da ricostruire, l’invidia di chi ha di più. Non esiste alcuna originalità in questa critica perpetua. Una liturgia aggiornata con minime variazioni, un catechismo rivoluzionario che si aggiorna solo nella superficie mantenendo invariata la sostanza: antiliberale, antimoderno, antioccidentale. Che si parli del “capitalismo cognitivo” di Negri, della “violenza epistemica” di Gayatri Spivak, del “terzo spazio” di Homi Bhabha, la musica rimane la stessa. Cioè, che l’Occidente è il colpevole, il capitalismo è l’oppressore, il liberalismo è il demonio. Marcuse aveva teorizzato la “liberazione sessuale” come arma contro la società capitalistica, trasformando l’intimità in campo di battaglia. I suoi seguaci hanno spinto questa logica alle conseguenze estreme, sessualizzando, politicizzando ogni aspetto dell’esistenza umana. E la crociata d’uguaglianza è oggi la crociata identitaria.
Foucault, con la sua Storia della sessualità, ha reinterpretato ogni gesto intimo come “dispositivo di potere”. Judith Butler ha raggiunto il parossismo negando l’esistenza biologica del sesso in nome della “performatività del genere”. Il risultato è una società ipersessualizzata … E paradossalmente sterile. Il femminismo, da sacrosanto movimento di liberazione, si è trasformato in un’arma di decostruzione del sesso femminile, della maternità, dunque del concetto di donna, in un avviluppamento di costante reframing fine a se stesso. I pensatori della “nouvelle vague” critica e antiliberale condividono un elemento: la deliberata oscurità del linguaggio. Il che li rende guru e santoni. La complessità linguistica serve a creare un’aura di profondità impenetrabile che genera riverenza. Per moda e autoreferenzialità – quel bisogno di essere sempre adulati, ossequiati nel salotto tv – si è così formata una casta di intellettuali, professori, critici e giornalisti post-marxisti organici al disegno dell’eterno “criticism”.
Chi osa criticare Foucault viene bollato come “reazionario”. Chi mette in discussione Edward Said è accusato di “islamofobia”. E chi contesta Noam Chomsky è etichettato come “imperialista”. La dinamica è quella tipica delle sette religiose. Dove il pensiero critico viene sostituito dalla devozione, il dibattito razionale dalla scomunica. L’arsenale teorico post-strutturalista opera attraverso una sistematica forzatura concettuale oltre ogni limite ragionevole. Ogni forma di autorità diventa “fascismo”, ogni differenza culturale “colonialismo” e ogni gerarchia “oppressione”. Said ha trasformato l’“orientalismo” da categoria storiografica in anatema universale, rendendo molto difficili studi politici seri del mondo islamico. Questa operazione non è casuale: la forzatura concettuale serve a impedire il pensiero discriminante. Se tutto è fascismo, niente è fascismo. Se tutto è oppressione, non esistono più oppressori reali da combattere.
Foucault aveva descritto il Panopticon come metafora del controllo, ma i suoi discepoli hanno creato qualcosa di più efficace: un sistema di controllo sociale basato sull’autosorveglianza. Ogni parola viene monitorata, ogni gesto interpretato, ogni opinione vagliata per verificarne la conformità ideologica. Il “politicamente corretto” non è solo censura esterna, ma interiorizzazione del controllo. Cioè: gli individui si autocensurano, anticipando la presunta – ma non inaspettata – punizione sociale. I social media hanno esacerbato questo meccanismo trasformando ogni post in potenziale “shit storm”, ogni opinione fuori dal seminato in possibile distruzione della carriera, ogni battuta in possibile “hate speech”. È nato un regime di sorveglianza stile Stasi: non serve più spiare i cittadini, sono loro a denunciarsi reciprocamente. Slavoj Žižek ha teorizzato questa forma di controllo come “totalitarismo con volto umano”. Nessuno ti obbliga a pensarla in un certo modo – semplicemente non puoi permetterti di pensarla diversamente.
Žižek ha reso “cool” l’odio per l’America e la nostalgia per il comunismo. Ha contribuito a forgiare l’immagine di un’America come male assoluto e l’Occidente come una macchina di oppressione globale. Chomsky rappresenta l’esempio più cristallino di questo antioccidentalismo militante. Per oltre mezzo secolo ha costruito una narrazione impegnata per cui ogni intervento americano è imperialismo, ogni guerra è cospirazione delle élite, ogni difesa dei valori occidentali è maschera del dominio economico. Tutto viene ridotto a costrutti del potere occidentale. Said, da parte sua, ha contribuito a rendere praticamente impossibile ogni critica seria ai problemi posti dall’Islam politico e le sue minacce. Tali tesi – che ogni discorso occidentale sull’Islam sia razzista e imperialista – contribuiscono a creare una vera e propria paralisi intellettuale. Spivak ha esteso questa logica a ogni forma di critica verso il mondo non-occidentale, rendendo impronunciabile qualsiasi giudizio morale sui regimi oppressivi purché non siano occidentali.
Criticare la misoginia, l’omofobia o l’antisemitismo presenti in molte società islamiche è diventato un tabù, automaticamente accusato di razzismo. Questa ipocrisia ha raggiunto vette grottesche quando intellettuali come Butler hanno descritto Hamas e Hezbollah come “movimenti sociali progressisti”, ignorando il loro carattere teocratico e terroristico. La difesa dell’“Altro” è diventata così una nuova forma di conformismo ideologico che sacrifica peraltro i diritti delle donne, degli omosessuali e delle minoranze musulmane sull’altare del politicamente corretto. Gli stessi intellettuali che denunciano il “patriarcato occidentale” tacciono davanti alle lapidazioni, quelli che criticano l’omofobia cristiana ignorano le leggi islamiche che puniscono l’omosessualità con la morte – per non palare della sorte riservata agli ebrei. Insomma: tutto è accettabile purché non sia occidentale. L’antisemitismo del passato è spesso giustificato dall’“antisionismo” accademico.
Si tratta di un nuovo antisemitismo, insidioso perché si presenta come critica progressista e solidarietà con gli oppressi. Riproduce gli stessi stereotipi dell’antisemitismo classico. Cioè gli ebrei come popolo dominatore. Žižek ha teorizzato un “antisemitismo senza antisemiti”, dove l’odio verso gli ebrei si maschera da critica al capitalismo. Spivak ha descritto ogni difesa di Israele come violenza epistemica dell’imperialismo occidentale. Gramsci aveva teorizzato la distinzione tra “intellettuali tradizionali” e “intellettuali organici”, ma i pensatori post-moderni rappresentano una terza categoria: gli intellettuali militanti. Di nuovo, Chomsky non è solo un linguista che critica la politica americana, ma un propagandista che usa la linguistica con credenziale accademica. Žižek non è un filosofo che analizza il capitalismo, ma un agitatore comunista che usa la psicoanalisi lacaniana come strumento retorico. Butler non è una teorica del gender, ma un’attivista che strumentalizza la filosofia continentale come arma ideologica.
Questi intellettuali hanno abbandonato ogni pretesa di neutralità scientifica per abbracciare la militanza politica, continuando a rivendicare l’autorità accademica per le loro posizioni. Creano una confusione sistematica tra scienza e ideologia. Il post-strutturalismo di Foucault e Jacques Derrida nasconde un nichilismo radicale devastante. Se tutto è costruzione sociale, se non esistono verità oggettive, se ogni discorso è solo strategia di potere, allora nulla ha valore. Nulla merita di essere difeso, nulla vale la pena di essere costruito. Questo nichilismo ha prodotto una generazione di intellettuali che – di un nuovo il playbook marxista – sanno solo criticare e distruggere. Mai proporre e costruire alternative concrete. La condizione operaia di un tempo, i poveri di oggi, non sono e non saranno riscattati da costoro o queste posizioni nocive per il concerto sociale. E poi il cambiamento climatico: un nuovo oppio dei popoli, trasformato da urgente problema scientifico a religione secolare.
Intellettuali come Naomi Klein hanno trasformato l’ecologia in anticapitalismo militante, utilizzando la “crisi climatica” per legittimare la distruzione dell’economia di mercato – che ha trovato e procederà nell’identificazione di soluzioni a questo problema. Žižek stesso predica l’“eco-comunismo” come unica alternativa all’estinzione. Michael Hardt e Negri hanno teorizzato una “moltitudine ecologica” che dovrebbe rovesciare l’“Impero”. Il movimento antiglobalizzazione è uno dei paradossi più evidenti del pensiero post-moderno contemporaneo. L’agenda antiglobalista intende abolire i mercati globali, ma “imporre” i diritti umani universali; distruggere le multinazionali, ma costruire movimenti transnazionali; difendere le culture locali, ma omologare ideologie progressiste. Il problema di fondo è che questo apparato critico non si limita a criticare costruttivamente, ma impedisce sistematicamente di pensare altrimenti. Non offre alternative praticabili, non costruisce istituzioni migliori, non genera libertà concreta. Produce solo sensi di colpa, angoscia collettiva e predisposizione a giustificare nuove forme di odio.
Tale meccanismo distruttivo è una forma di regressione culturale travestita da avanguardia intellettuale. Una rinuncia alla responsabilità del pensiero, un tradimento sistematico della tradizione del pensiero illuminista. In nome della decostruzione si è distrutta ogni volontà di verità. E in nome dell’alterità si è perso ogni riferimento (e il senso) comune. Se si vuole salvare ciò che resta dell’eredità occidentale – con tutti i suoi difetti, ma anche con le sue comode libertà – occorre iniziare a dire no a questo rituale distruttivo che si crede emancipazione. L’Occidente ha urgente bisogno di intellettuali costruttivi: non di profeti dell’apocalisse che seguono una loro agenda – peraltro basata su di un passato politicamente ed economicamente fallimentare. Occorrono pensatori che difendano la libertà senza cadere nell’autoflagellazione culturale sistematica. Intellighenzia radical post-marxista permettendo, la civiltà occidentale rimane, nonostante tutto, lo spazio più avanzato di libertà e diritti della storia umana.
Amedeo Gasparini
Negli ultimi sessant’anni una certa intellighenzia radicale ha orchestrato una sistematica demolizione delle fondamenta culturali dell’Occidente. Non una normale critica intellettuale, ma un vero e proprio progetto di dissoluzione che, sotto la maschera della sofisticazione teorica, ha prodotto effetti devastanti sulla coesione sociale, sulla fiducia nelle istituzioni democratiche, sul libero mercato, sulla capacità dell’Occidente di difendere i propri valori. Il nemico dichiarato è la libertà e il sistema sociopolitico liberaldemocratico che ne garantisce, con tutti i suoi difetti, la migliore applicazione finora sperimentata. Il Sessantotto ha rappresentato il momento decisivo in questa trasformazione. Herbert Marcuse aveva fornito la cornice teorica necessaria. Michel Foucault, con le sue genealogie del potere, aveva offerto gli strumenti analitici per decostruire l’autorità. Jacques Lacan aveva completato l’opera psicanalizzando la rivoluzione stessa. Quando però la rivoluzione politica è fallita, i rivoluzionari non si sono arresi.
Si sono rifugiati nell’accademia, trasformando gradualmente parecchie università in centrali operative per quella che Antonio Gramsci aveva chiamato la lunga marcia nelle istituzioni. Daniel Cohn-Bendit, Antonio Negri, i situazionisti francesi, i Weathermen americani … Tutti hanno seguito lo stesso percorso dalla guerriglia urbana alla cattedra. La violenza fisica è stata sostituita dalla “violenza simbolica”, le molotov dai paper, le barricate dalle commissioni universitarie. L’obiettivo, tuttavia, è rimasto identico: distruggere la società borghese dall’interno, applicando al rovescio il concetto di “egemonia culturale”. Gli epigoni di Gramsci hanno utilizzato quella teoria per conquistare l’egemonia culturale e demolire la società borghese. L’operazione pare riuscita. Molte università sono diventate il quartier generale di questa rivoluzione culturale. Interi dipartimenti di studi culturali, gender studies e post-colonial studies hanno trasformato l’accademia in una fabbrica di militanti antioccidentali.
Professori che non hanno mai letto una pagina di economia – se non quella fantasiosa marxiana – predicano contro il capitalismo. Docenti che ignorano la storia islamica insegnano che ogni critica all’Islam costituisce razzismo. Cattedratici che ignorano il problema del terrorismo Hamas e teorizzano la resistenza palestinese. Dietro le sofisticate teorie post-strutturaliste si nasconde sempre la stessa ossatura marxista. Ovvero, la volontà di creare una divisione manichea del mondo in oppressori e oppressi, la riduzione di ogni fenomeno culturale a rapporti di forza e di sesso, la negazione di ogni valore universale in nome di una lotta di classe allargata a tutte le identità possibili. Negri, ad esempio, aveva aggiornato il marxismo sostituendo il proletariato con la “moltitudine” e l’imperialismo economico con quello culturale. Bell Hooks ha trasformato la pedagogia in un’arma di indottrinamento anti-bianco, facendo dell’educazione un campo di battaglia identitario.
Anche quando sembrano aver superato Karl Marx, questi pensatori ne conservano l’impianto fondamentale: l’odio per il mercato, la diffidenza verso la democrazia liberale, la nostalgia per una società reazionaria da ricostruire, l’invidia di chi ha di più. Non esiste alcuna originalità in questa critica perpetua. Una liturgia aggiornata con minime variazioni, un catechismo rivoluzionario che si aggiorna solo nella superficie mantenendo invariata la sostanza: antiliberale, antimoderno, antioccidentale. Che si parli del “capitalismo cognitivo” di Negri, della “violenza epistemica” di Gayatri Spivak, del “terzo spazio” di Homi Bhabha, la musica rimane la stessa. Cioè, che l’Occidente è il colpevole, il capitalismo è l’oppressore, il liberalismo è il demonio. Marcuse aveva teorizzato la “liberazione sessuale” come arma contro la società capitalistica, trasformando l’intimità in campo di battaglia. I suoi seguaci hanno spinto questa logica alle conseguenze estreme, sessualizzando, politicizzando ogni aspetto dell’esistenza umana. E la crociata d’uguaglianza è oggi la crociata identitaria.
Foucault, con la sua Storia della sessualità, ha reinterpretato ogni gesto intimo come “dispositivo di potere”. Judith Butler ha raggiunto il parossismo negando l’esistenza biologica del sesso in nome della “performatività del genere”. Il risultato è una società ipersessualizzata … E paradossalmente sterile. Il femminismo, da sacrosanto movimento di liberazione, si è trasformato in un’arma di decostruzione del sesso femminile, della maternità, dunque del concetto di donna, in un avviluppamento di costante reframing fine a se stesso. I pensatori della “nouvelle vague” critica e antiliberale condividono un elemento: la deliberata oscurità del linguaggio. Il che li rende guru e santoni. La complessità linguistica serve a creare un’aura di profondità impenetrabile che genera riverenza. Per moda e autoreferenzialità – quel bisogno di essere sempre adulati, ossequiati nel salotto tv – si è così formata una casta di intellettuali, professori, critici e giornalisti post-marxisti organici al disegno dell’eterno “criticism”.
Chi osa criticare Foucault viene bollato come “reazionario”. Chi mette in discussione Edward Said è accusato di “islamofobia”. E chi contesta Noam Chomsky è etichettato come “imperialista”. La dinamica è quella tipica delle sette religiose. Dove il pensiero critico viene sostituito dalla devozione, il dibattito razionale dalla scomunica. L’arsenale teorico post-strutturalista opera attraverso una sistematica forzatura concettuale oltre ogni limite ragionevole. Ogni forma di autorità diventa “fascismo”, ogni differenza culturale “colonialismo” e ogni gerarchia “oppressione”. Said ha trasformato l’“orientalismo” da categoria storiografica in anatema universale, rendendo molto difficili studi politici seri del mondo islamico. Questa operazione non è casuale: la forzatura concettuale serve a impedire il pensiero discriminante. Se tutto è fascismo, niente è fascismo. Se tutto è oppressione, non esistono più oppressori reali da combattere.
Foucault aveva descritto il Panopticon come metafora del controllo, ma i suoi discepoli hanno creato qualcosa di più efficace: un sistema di controllo sociale basato sull’autosorveglianza. Ogni parola viene monitorata, ogni gesto interpretato, ogni opinione vagliata per verificarne la conformità ideologica. Il “politicamente corretto” non è solo censura esterna, ma interiorizzazione del controllo. Cioè: gli individui si autocensurano, anticipando la presunta – ma non inaspettata – punizione sociale. I social media hanno esacerbato questo meccanismo trasformando ogni post in potenziale “shit storm”, ogni opinione fuori dal seminato in possibile distruzione della carriera, ogni battuta in possibile “hate speech”. È nato un regime di sorveglianza stile Stasi: non serve più spiare i cittadini, sono loro a denunciarsi reciprocamente. Slavoj Žižek ha teorizzato questa forma di controllo come “totalitarismo con volto umano”. Nessuno ti obbliga a pensarla in un certo modo – semplicemente non puoi permetterti di pensarla diversamente.
Žižek ha reso “cool” l’odio per l’America e la nostalgia per il comunismo. Ha contribuito a forgiare l’immagine di un’America come male assoluto e l’Occidente come una macchina di oppressione globale. Chomsky rappresenta l’esempio più cristallino di questo antioccidentalismo militante. Per oltre mezzo secolo ha costruito una narrazione impegnata per cui ogni intervento americano è imperialismo, ogni guerra è cospirazione delle élite, ogni difesa dei valori occidentali è maschera del dominio economico. Tutto viene ridotto a costrutti del potere occidentale. Said, da parte sua, ha contribuito a rendere praticamente impossibile ogni critica seria ai problemi posti dall’Islam politico e le sue minacce. Tali tesi – che ogni discorso occidentale sull’Islam sia razzista e imperialista – contribuiscono a creare una vera e propria paralisi intellettuale. Spivak ha esteso questa logica a ogni forma di critica verso il mondo non-occidentale, rendendo impronunciabile qualsiasi giudizio morale sui regimi oppressivi purché non siano occidentali.
Criticare la misoginia, l’omofobia o l’antisemitismo presenti in molte società islamiche è diventato un tabù, automaticamente accusato di razzismo. Questa ipocrisia ha raggiunto vette grottesche quando intellettuali come Butler hanno descritto Hamas e Hezbollah come “movimenti sociali progressisti”, ignorando il loro carattere teocratico e terroristico. La difesa dell’“Altro” è diventata così una nuova forma di conformismo ideologico che sacrifica peraltro i diritti delle donne, degli omosessuali e delle minoranze musulmane sull’altare del politicamente corretto. Gli stessi intellettuali che denunciano il “patriarcato occidentale” tacciono davanti alle lapidazioni, quelli che criticano l’omofobia cristiana ignorano le leggi islamiche che puniscono l’omosessualità con la morte – per non palare della sorte riservata agli ebrei. Insomma: tutto è accettabile purché non sia occidentale. L’antisemitismo del passato è spesso giustificato dall’“antisionismo” accademico.
Si tratta di un nuovo antisemitismo, insidioso perché si presenta come critica progressista e solidarietà con gli oppressi. Riproduce gli stessi stereotipi dell’antisemitismo classico. Cioè gli ebrei come popolo dominatore. Žižek ha teorizzato un “antisemitismo senza antisemiti”, dove l’odio verso gli ebrei si maschera da critica al capitalismo. Spivak ha descritto ogni difesa di Israele come violenza epistemica dell’imperialismo occidentale. Gramsci aveva teorizzato la distinzione tra “intellettuali tradizionali” e “intellettuali organici”, ma i pensatori post-moderni rappresentano una terza categoria: gli intellettuali militanti. Di nuovo, Chomsky non è solo un linguista che critica la politica americana, ma un propagandista che usa la linguistica con credenziale accademica. Žižek non è un filosofo che analizza il capitalismo, ma un agitatore comunista che usa la psicoanalisi lacaniana come strumento retorico. Butler non è una teorica del gender, ma un’attivista che strumentalizza la filosofia continentale come arma ideologica.
Questi intellettuali hanno abbandonato ogni pretesa di neutralità scientifica per abbracciare la militanza politica, continuando a rivendicare l’autorità accademica per le loro posizioni. Creano una confusione sistematica tra scienza e ideologia. Il post-strutturalismo di Foucault e Jacques Derrida nasconde un nichilismo radicale devastante. Se tutto è costruzione sociale, se non esistono verità oggettive, se ogni discorso è solo strategia di potere, allora nulla ha valore. Nulla merita di essere difeso, nulla vale la pena di essere costruito. Questo nichilismo ha prodotto una generazione di intellettuali che – di un nuovo il playbook marxista – sanno solo criticare e distruggere. Mai proporre e costruire alternative concrete. La condizione operaia di un tempo, i poveri di oggi, non sono e non saranno riscattati da costoro o queste posizioni nocive per il concerto sociale. E poi il cambiamento climatico: un nuovo oppio dei popoli, trasformato da urgente problema scientifico a religione secolare.
Intellettuali come Naomi Klein hanno trasformato l’ecologia in anticapitalismo militante, utilizzando la “crisi climatica” per legittimare la distruzione dell’economia di mercato – che ha trovato e procederà nell’identificazione di soluzioni a questo problema. Žižek stesso predica l’“eco-comunismo” come unica alternativa all’estinzione. Michael Hardt e Negri hanno teorizzato una “moltitudine ecologica” che dovrebbe rovesciare l’“Impero”. Il movimento antiglobalizzazione è uno dei paradossi più evidenti del pensiero post-moderno contemporaneo. L’agenda antiglobalista intende abolire i mercati globali, ma “imporre” i diritti umani universali; distruggere le multinazionali, ma costruire movimenti transnazionali; difendere le culture locali, ma omologare ideologie progressiste. Il problema di fondo è che questo apparato critico non si limita a criticare costruttivamente, ma impedisce sistematicamente di pensare altrimenti. Non offre alternative praticabili, non costruisce istituzioni migliori, non genera libertà concreta. Produce solo sensi di colpa, angoscia collettiva e predisposizione a giustificare nuove forme di odio.
Tale meccanismo distruttivo è una forma di regressione culturale travestita da avanguardia intellettuale. Una rinuncia alla responsabilità del pensiero, un tradimento sistematico della tradizione del pensiero illuminista. In nome della decostruzione si è distrutta ogni volontà di verità. E in nome dell’alterità si è perso ogni riferimento (e il senso) comune. Se si vuole salvare ciò che resta dell’eredità occidentale – con tutti i suoi difetti, ma anche con le sue comode libertà – occorre iniziare a dire no a questo rituale distruttivo che si crede emancipazione. L’Occidente ha urgente bisogno di intellettuali costruttivi: non di profeti dell’apocalisse che seguono una loro agenda – peraltro basata su di un passato politicamente ed economicamente fallimentare. Occorrono pensatori che difendano la libertà senza cadere nell’autoflagellazione culturale sistematica. Intellighenzia radical post-marxista permettendo, la civiltà occidentale rimane, nonostante tutto, lo spazio più avanzato di libertà e diritti della storia umana.
Amedeo Gasparini