Studiosa di famiglia franco-ceca cresciuta in Germania e trasferitasi a Londra, Maïa Hruska si è chiesta cosa succede all’opera di uno scrittore quando viene tradotta. È con questo interrogativo che parte il suo Dieci versioni di Kafka (Mondadori 2025). Un libro erudito che indaga come l’opera del praghese sia stata plasmata dai suoi interpreti. Già a partire dalla metà degli anni Venti, dieci scrittori fecero conoscere Franz Kafka al di fuori della lingua e del luogo in cui aveva concepito le sue opere. Paul Celan e Primo Levi lo tradussero in rumeno e italiano. Bruno Schulz in polacco. Milena Jesenská in ceco. Jorge Luis Borges in spagnolo. Melech Ravitch in yiddish. Tutti questi illustri hanno imposto l’opera di Kafka sulla scena mondiale proiettandovi qualcosa di loro stessi, come fossero investiti di una missione. Il kafkiano è diventato un feticcio che ci rigiriamo tra le dita.
All’inizio Kafka era un emerito sconosciuto. Quando morì nel 1924, pochi lo conoscevano. E i suoi traduttori sono stati i suoi profeti, i suoi messaggeri. Kafka non ha mai conosciuto nessuno dei suoi interpreti, a parte Jesenská. Sette di quei traduttori, in compenso, hanno conosciuto la Shoah. Il primo capitolo tratta del rapporto complesso tra Kafka e la Russia sovietica. Le date parlano da sole. Nel 1883 nasce Kafka e muore Karl Marx. Nel 1924, muoiono Kafka e Lenin. Dal punto di vista sovietico non sembra presagire nulla di buono, commenta Hruska. In questo paese Kafka è stato messo al bando per decenni. Kafka, da par suo, non ha avuto la benché minima voglia di conoscere il comunismo. Il suo primo traduttore ungherese, Sándor Márai, osservò: «Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso».
«Una traduzione è un giudizio», ha osservato Emil Cioran. Negli anni Sessanta, grazie alla mediazione di Jean-Paul Sartre, vedono la luce anche in URSS le prime edizioni di Kafka. Ma la sua lingua era insolubile in quella del lirismo rivoluzionario. Negli anni in cui Lenin pubblica Che fare?, Kafka ha una sola risposta: nulla. Non prende parte ad alcun conflitto. Di scopi non ce ne sono. Le opere di Kafka non citano regimi, partiti, tiranni o cause politiche. Si pensi che scrisse nel diario (2 agosto 1914): «La Germania ha dichiarato la guerra alla Russia. Nel pomeriggio: scuola di nuoto». Kafka elude le ingiunzioni del suo tempo. Come sosteneva Arthur Rimbaud, la vera vita è altrove. Ma al contrario di Rimbaud e Marx, Kafka non si illudeva di cambiare vita o trasformare il mondo. Sionismo, anarchia, comunismo, psicoanalisi, scienza, chassidismo: Kafka non aderisce ad alcuna corrente.
Viveva per scrivere. Non si è mai voluto impegnare. Né con le sue amanti, né con la sua epoca. Ambiva solo ad astrarsi dal mondo. Un capitolo è dedicato alla traduzione francese di Eugene Jolas. Colombey-les-Deux-Églises, prima di diventare nel 1934 la residenza dei de Gaulle, era stata una mecca dell’underground letterario. Jolas tradusse in inglese le novelle di Kafka dopo essersi stabilito in Francia nel 1927. Nato nel New Jersey nel 1894, ma cresciuto in Alsazia da padre francese e madre tedesca, possedeva una smania enciclopedica. Poi la traduzione spagnola: Borges, due uomini e un labirinto. L’argentino ha curato oltre diciotto traduzioni di Kafka, che impregnava talmente la sua esistenza da diventare quasi un’ossessione. A Ginevra, tra il 1914 e il 1918, Borges studiava letteratura tedesca. Ma iniziò a tradurre Kafka solo nel 1938.
Segue il capitolo su Kafka e Celan. Poeta, ebreo, cittadino romeno esule a Parigi. Maïa Hruska dedica un excursus a Czernowitz, conosciuta anche come Cernăuți o Chernivtsi. Non diversamente da Praga, anche Czernowitz è spesso passata di mano: è stata ottomana, poi asburgica, quindi romena, sovietica e infine, dal 1993, ucraina. Celan è germanofono, come Kafka. Nessuno dei due, però, si è mai considerato un tedesco. I Celan vengono deportati nel 1942. La madre è uccisa da una pallottola, il padre dal tifo. Il cognome Celan è composto dalle sillabe del cognome Ancel. Il poeta si cimenta con Kafka appena rientrato dal campo di concentramento. È un poliglotta che padroneggia il russo, l’inglese, l’italiano, il portoghese, il romeno, l’ebraico e il francese, oltre al tedesco. Le sue specialità sono gli intraducibili: e Kafka, forse, degli intraducibili era il re.
È il turno di Ravitch, nato nella Galizia austriaca nel 1893 e transitato per Vienna, Varsavia, Johannesburg, New York e Gerusalemme, per stabilirsi a Montreal. Lo yiddish è una lingua al tempo stesso intima e lontana. Wolfgang Goethe, che Kafka lesse assiduamente, era convinto che la traduzione potesse solo nobilitare una lingua. Maïa Hruska tratta la lingua alla luce di diversi scrittori. Martin Buber, nato a Vienna nel 1878, ma cresciuto a Lemberg, affronta i dilemmi e le disdette dell’esistenza ebraica in Europa. Rainer Maria Rilke, contemporaneo di Kafka e praghese di lingua tedesca, sapeva quanto fosse mortifera l’intimità del ceco e del tedesco. Nel 1937 Elias Canetti visitò il pittore Oskar Kokoschka a Praga, dove viene proscritto come artista degenerato, trasse le stesse conclusioni di Kafka sulla lingua. Cioè che nulla rende più vulnerabili che trovarsi esposti a una lingua straniera che ci assomiglia o ci capisce.
La finzione kafkiana e la memorialistica di Levi fanno i conti con uno stesso ostacolo: l’incredulità del pubblico. La prima edizione di Se questo è un uomo esce da una piccola casa torinese, De Silva, dopo che molte delle grandi case editrici avevano rifiutato il manoscritto. La stessa sorte delle prime opere kafkiane: la tiratura non supera i duemila esemplari. Levi scrisse che «nei Lager ti imbatti continuamente in qualcosa che non ti aspetti, ed è abbastanza tipico di Kafka quello di aprire una porta e di trovare non quello che ti aspetti, ma una cosa diversa, completamente diversa». La finzione kafkiana e la non-fiction di Levi appartengono alla stessa realtà: quella di Auschwitz, commenta Hruska. Poi, certo, sono ebrei tutti e due. Ma Levi insiste sulle differenze: «È morto giovane. Io, malgrado l’episodio del Lager, che mi ha segnato profondamente, ho avuto una vita diversa, meno infelice».
Nel 1982 Italo Calvino della Einaudi gli propone di ritradurre in italiano Il processo. Levi accetta. La prima versione italiana risale al 1933: è quella di Alberto Spaini, uscita per Franco Antonicelli che nel 1947, alla testa della De Silva, sceglie di pubblicare Se questo è un uomo. Poi è il turno di Alexandre Vialatte che, come ha detto Jean Dubuffet, «ricercava il bislacco ovunque andasse, in ogni moment». Quando si legge la sua corrispondenza con Jean Paulhan e Gaston Gallimard si è confrontati con un vulcano di idee. Il tedesco lo ha imparato al liceo, gira con occhiali squadrati e il papillon. Vialatte traduce anche Friedrich Nietzsche e Bertolt Brecht. I Blanchot, i Gide, i Sartre, i Camus, autori che al contrario di Vialatte dominano le scene dell’epoca, proiettano su Kafka ogni genere di affinità con gli -ismi del momento.
Schulz è il traduttore polacco di Kafka. Di formazione disegnatore di Drohobycz, suo padre ha un negozio di merceria e tessuti, come quello di Kafka. Bruno non si è mai mosso di lì. Drohobycz è per Schulz quello che Praga è stata per Kafka: lo sfondo della sua vita. Approda alla letteratura un po’ per caso e con la crescente notorietà a Varsavia traduce Kafka in polacco. Né Schulz né Kafka sono mai usciti dai confini del paese natale, se non in via molto sporadica. Ma il 19 novembre 1942 il primo viene freddato dai nazisti. Maïa Hruska dedica anche un capitolo a Kafka e l’ebraico. Salman Schocken, editore e uomo d’affari, aveva una casa editrice berlinese che smette di esistere nel 1938, ma lui la rifonda a Tel Aviv. Il primo romanzo kafkiano pubblicato in ebraico, nel 1945, è America, tradotto da Yitzhak Shenhar.
La traduzione di Milena chiude il ciclo. Destinataria delle lettere febbrili e smaniose che Kafka le scrive tra il 1920 e il 1923. Milena e Franz si conoscono a Praga nel 1919 al Caffè Arco. Kafka ha trentasette anni, Milena ventiquattro. Non è ebrea. L’andirivieni delle traduzioni spedite tra Vienna e Praga ha modo l’effetto di «maturare il seme nascosto della lingua più alta», per dirla con Walter Benjamin. Dal 1948 il Partito Comunista Cecoslovacco considerò il traduttore e l’autore ufficialmente una cosa sola. Per cui i nomi di Milena e di Kafka furono oggetto di un divieto congiunto. Nel 1963, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Kafka, le autorità accettarono di riabilitare lo scrittore in un convegno internazionale nel castello di Liblice. Ottantadue specialisti invitati da Eduard Goldstücker, presidente dell’Unione degli scrittori cechi, si diedero appuntamento per riconciliare Kafka con il marxismo-leninismo.
Amedeo Gasparini
Studiosa di famiglia franco-ceca cresciuta in Germania e trasferitasi a Londra, Maïa Hruska si è chiesta cosa succede all’opera di uno scrittore quando viene tradotta. È con questo interrogativo che parte il suo Dieci versioni di Kafka (Mondadori 2025). Un libro erudito che indaga come l’opera del praghese sia stata plasmata dai suoi interpreti. Già a partire dalla metà degli anni Venti, dieci scrittori fecero conoscere Franz Kafka al di fuori della lingua e del luogo in cui aveva concepito le sue opere. Paul Celan e Primo Levi lo tradussero in rumeno e italiano. Bruno Schulz in polacco. Milena Jesenská in ceco. Jorge Luis Borges in spagnolo. Melech Ravitch in yiddish. Tutti questi illustri hanno imposto l’opera di Kafka sulla scena mondiale proiettandovi qualcosa di loro stessi, come fossero investiti di una missione. Il kafkiano è diventato un feticcio che ci rigiriamo tra le dita.
All’inizio Kafka era un emerito sconosciuto. Quando morì nel 1924, pochi lo conoscevano. E i suoi traduttori sono stati i suoi profeti, i suoi messaggeri. Kafka non ha mai conosciuto nessuno dei suoi interpreti, a parte Jesenská. Sette di quei traduttori, in compenso, hanno conosciuto la Shoah. Il primo capitolo tratta del rapporto complesso tra Kafka e la Russia sovietica. Le date parlano da sole. Nel 1883 nasce Kafka e muore Karl Marx. Nel 1924, muoiono Kafka e Lenin. Dal punto di vista sovietico non sembra presagire nulla di buono, commenta Hruska. In questo paese Kafka è stato messo al bando per decenni. Kafka, da par suo, non ha avuto la benché minima voglia di conoscere il comunismo. Il suo primo traduttore ungherese, Sándor Márai, osservò: «Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso».
«Una traduzione è un giudizio», ha osservato Emil Cioran. Negli anni Sessanta, grazie alla mediazione di Jean-Paul Sartre, vedono la luce anche in URSS le prime edizioni di Kafka. Ma la sua lingua era insolubile in quella del lirismo rivoluzionario. Negli anni in cui Lenin pubblica Che fare?, Kafka ha una sola risposta: nulla. Non prende parte ad alcun conflitto. Di scopi non ce ne sono. Le opere di Kafka non citano regimi, partiti, tiranni o cause politiche. Si pensi che scrisse nel diario (2 agosto 1914): «La Germania ha dichiarato la guerra alla Russia. Nel pomeriggio: scuola di nuoto». Kafka elude le ingiunzioni del suo tempo. Come sosteneva Arthur Rimbaud, la vera vita è altrove. Ma al contrario di Rimbaud e Marx, Kafka non si illudeva di cambiare vita o trasformare il mondo. Sionismo, anarchia, comunismo, psicoanalisi, scienza, chassidismo: Kafka non aderisce ad alcuna corrente.
Viveva per scrivere. Non si è mai voluto impegnare. Né con le sue amanti, né con la sua epoca. Ambiva solo ad astrarsi dal mondo. Un capitolo è dedicato alla traduzione francese di Eugene Jolas. Colombey-les-Deux-Églises, prima di diventare nel 1934 la residenza dei de Gaulle, era stata una mecca dell’underground letterario. Jolas tradusse in inglese le novelle di Kafka dopo essersi stabilito in Francia nel 1927. Nato nel New Jersey nel 1894, ma cresciuto in Alsazia da padre francese e madre tedesca, possedeva una smania enciclopedica. Poi la traduzione spagnola: Borges, due uomini e un labirinto. L’argentino ha curato oltre diciotto traduzioni di Kafka, che impregnava talmente la sua esistenza da diventare quasi un’ossessione. A Ginevra, tra il 1914 e il 1918, Borges studiava letteratura tedesca. Ma iniziò a tradurre Kafka solo nel 1938.
Segue il capitolo su Kafka e Celan. Poeta, ebreo, cittadino romeno esule a Parigi. Maïa Hruska dedica un excursus a Czernowitz, conosciuta anche come Cernăuți o Chernivtsi. Non diversamente da Praga, anche Czernowitz è spesso passata di mano: è stata ottomana, poi asburgica, quindi romena, sovietica e infine, dal 1993, ucraina. Celan è germanofono, come Kafka. Nessuno dei due, però, si è mai considerato un tedesco. I Celan vengono deportati nel 1942. La madre è uccisa da una pallottola, il padre dal tifo. Il cognome Celan è composto dalle sillabe del cognome Ancel. Il poeta si cimenta con Kafka appena rientrato dal campo di concentramento. È un poliglotta che padroneggia il russo, l’inglese, l’italiano, il portoghese, il romeno, l’ebraico e il francese, oltre al tedesco. Le sue specialità sono gli intraducibili: e Kafka, forse, degli intraducibili era il re.
È il turno di Ravitch, nato nella Galizia austriaca nel 1893 e transitato per Vienna, Varsavia, Johannesburg, New York e Gerusalemme, per stabilirsi a Montreal. Lo yiddish è una lingua al tempo stesso intima e lontana. Wolfgang Goethe, che Kafka lesse assiduamente, era convinto che la traduzione potesse solo nobilitare una lingua. Maïa Hruska tratta la lingua alla luce di diversi scrittori. Martin Buber, nato a Vienna nel 1878, ma cresciuto a Lemberg, affronta i dilemmi e le disdette dell’esistenza ebraica in Europa. Rainer Maria Rilke, contemporaneo di Kafka e praghese di lingua tedesca, sapeva quanto fosse mortifera l’intimità del ceco e del tedesco. Nel 1937 Elias Canetti visitò il pittore Oskar Kokoschka a Praga, dove viene proscritto come artista degenerato, trasse le stesse conclusioni di Kafka sulla lingua. Cioè che nulla rende più vulnerabili che trovarsi esposti a una lingua straniera che ci assomiglia o ci capisce.
La finzione kafkiana e la memorialistica di Levi fanno i conti con uno stesso ostacolo: l’incredulità del pubblico. La prima edizione di Se questo è un uomo esce da una piccola casa torinese, De Silva, dopo che molte delle grandi case editrici avevano rifiutato il manoscritto. La stessa sorte delle prime opere kafkiane: la tiratura non supera i duemila esemplari. Levi scrisse che «nei Lager ti imbatti continuamente in qualcosa che non ti aspetti, ed è abbastanza tipico di Kafka quello di aprire una porta e di trovare non quello che ti aspetti, ma una cosa diversa, completamente diversa». La finzione kafkiana e la non-fiction di Levi appartengono alla stessa realtà: quella di Auschwitz, commenta Hruska. Poi, certo, sono ebrei tutti e due. Ma Levi insiste sulle differenze: «È morto giovane. Io, malgrado l’episodio del Lager, che mi ha segnato profondamente, ho avuto una vita diversa, meno infelice».
Nel 1982 Italo Calvino della Einaudi gli propone di ritradurre in italiano Il processo. Levi accetta. La prima versione italiana risale al 1933: è quella di Alberto Spaini, uscita per Franco Antonicelli che nel 1947, alla testa della De Silva, sceglie di pubblicare Se questo è un uomo. Poi è il turno di Alexandre Vialatte che, come ha detto Jean Dubuffet, «ricercava il bislacco ovunque andasse, in ogni moment». Quando si legge la sua corrispondenza con Jean Paulhan e Gaston Gallimard si è confrontati con un vulcano di idee. Il tedesco lo ha imparato al liceo, gira con occhiali squadrati e il papillon. Vialatte traduce anche Friedrich Nietzsche e Bertolt Brecht. I Blanchot, i Gide, i Sartre, i Camus, autori che al contrario di Vialatte dominano le scene dell’epoca, proiettano su Kafka ogni genere di affinità con gli -ismi del momento.
Schulz è il traduttore polacco di Kafka. Di formazione disegnatore di Drohobycz, suo padre ha un negozio di merceria e tessuti, come quello di Kafka. Bruno non si è mai mosso di lì. Drohobycz è per Schulz quello che Praga è stata per Kafka: lo sfondo della sua vita. Approda alla letteratura un po’ per caso e con la crescente notorietà a Varsavia traduce Kafka in polacco. Né Schulz né Kafka sono mai usciti dai confini del paese natale, se non in via molto sporadica. Ma il 19 novembre 1942 il primo viene freddato dai nazisti. Maïa Hruska dedica anche un capitolo a Kafka e l’ebraico. Salman Schocken, editore e uomo d’affari, aveva una casa editrice berlinese che smette di esistere nel 1938, ma lui la rifonda a Tel Aviv. Il primo romanzo kafkiano pubblicato in ebraico, nel 1945, è America, tradotto da Yitzhak Shenhar.
La traduzione di Milena chiude il ciclo. Destinataria delle lettere febbrili e smaniose che Kafka le scrive tra il 1920 e il 1923. Milena e Franz si conoscono a Praga nel 1919 al Caffè Arco. Kafka ha trentasette anni, Milena ventiquattro. Non è ebrea. L’andirivieni delle traduzioni spedite tra Vienna e Praga ha modo l’effetto di «maturare il seme nascosto della lingua più alta», per dirla con Walter Benjamin. Dal 1948 il Partito Comunista Cecoslovacco considerò il traduttore e l’autore ufficialmente una cosa sola. Per cui i nomi di Milena e di Kafka furono oggetto di un divieto congiunto. Nel 1963, nell’ottantesimo anniversario della nascita di Kafka, le autorità accettarono di riabilitare lo scrittore in un convegno internazionale nel castello di Liblice. Ottantadue specialisti invitati da Eduard Goldstücker, presidente dell’Unione degli scrittori cechi, si diedero appuntamento per riconciliare Kafka con il marxismo-leninismo.
Amedeo Gasparini