Letteratura

Manzoni: il mestiere di scrivere – Il professor Gian Luigi Beccaria a Lugano

Appuntamento particolarmente importante mercoledì sera per la Lettura manzoniana promossa dall’Istituto di Studi italiani dell’Università della svizzera italiana: a tenere una illuminante lezione attorno al Manzoni scrittore, infatti, niente meno che il professor Gian Luigi Beccaria, senz’altro uno dei più grandi storici della lingua attuali.

“Per Manzoni – ha esordito lo studioso – la lingua non era solo questione di stile, ma anzitutto inchiesta e tormento conoscitivo ed etico, nonché approfondimento del carattere degli uomini e della storia”.

Ed è a proposito di questo approfondimento, che il professor Beccaria ha ricordato anzitutto quanto Manzoni fosse “uno scrittore animato in primis da una sete fondamentale di giustizia e dall’orrore per l’oppressione: uno scrittore, in questo senso, rivoluzionario. Come disse bene Auerbach, Manzoni ha fondato un nuovo modo di raccontare, ponendo le basi per il realismo moderno e ricercando una rappresentazione seria della realtà quotidiana. Una realtà di cui fu inimitabile osservatore, osservatore dell’intimo, del domestico, elementi che hanno messo in lui radici profonde come in nessun altro. Il suo è un realismo con sfaccettature immense, un realismo direi “visivo”, nel senso che Manzoni scrittore conosce il teatrale della vista, del vedere. La storia morale del personaggio trapela dall’espressione del personaggio. Manzoni è un osservatore della realtà, che vuole decifrare l’identità del personaggio, facendolo comparire sulla scena“.

Ma la vera ossessione del Manzoni è un’altra: la questione della lingua. “È un caso illustre e clamoroso, quello manzoniano – spiega il professore – di una imperterrita e continua ricerca di una lingua adatta ad una prosa narrativa che all’Italia mancava, per un romanzo nazionale. E a questo problema dedica quasi la vita intera. Un compito molto impegnativo, se è vero, come scriveva Carlo Tenca nel 1851 che “il letterato italiano ha l’aria di un damerino che indossi un farsetto di fustagno e lascia trasparire i manichini di pizzo”. Manzoni, invece, vuole un “vestito” uniforme che non abbia questi stridori. Quindi si butta a corpo morto su libri e dizionari per approfondire la propria competenza linguistica. Il vocabolario della Crusca lo conciò a tal punto “da non lasciarlo più vedere”, lo crivellò di note. Il tutto per impossessarsi di vocaboli e locuzioni che non aveva, non conosceva. Si era reso conto subito di avere per le mani una lingua troppo “morta”, come egli stesso ammetterà. Per superare questa fase, dà alle stampe il primo “lavoro composito ed europeizzante”, in cui è evidente il retaggio francese, il Fermo e Lucia. Ma da allora, Manzoni comincia quel lungo cammino di ricerca di una lingua viva e vera, adatta al primo romanzo nazionale, una lingua che appartenesse anche a una comunità di parlanti reali”.

“Una ricerca – si badi bene (sottolinea a questo punto il professor Beccaria) – che non è riducibile a un discorso di mera filologia: ogni variazione linguistica per il Manzoni matura in un tessuto civile, muove verso un colloquio fraterno con una società per trovare una la lingua che rappresenti i più, la maggioranza. Per questo si può ben affermare che le sue scelte linguistiche sono anzitutto ideologiche”.

“Questo viaggio di maturazione, lo porterà come sappiamo a cercare delle corrispondenze tra il la lingua dialettale e il fiorentino, alla ricerca di quella parte d’unità di linguaggio che già possediamo, quel fondo comune, che rinviene anche nel dialetto ma non è solo del dialetto. È il sogno, in fondo, che attraversa tutta la storia della lingua italiana, il sogno di un’unità idiomatica”.

“Ma come dicevo, non è una felicità soltanto filologica la sua; il suo ricercare ha un fondamento ideologico e civile. In lui stava maturando la concezione di un rapporto fondamentale; quello che viene ad instaurarsi tra lo scrittore, nel momento medesimo in cui scrive e fa uso della lingua, e la società. Così, la questione della lingua non si può risolvere solo come problema teorico, ma dentro una rinnovata concezione del rapporto scrittore-società. La lingua, dunque, come problema sociale e civile che deve trovare riscontro in un luogo vero e vivo”.

“Anche per questo si vede bene che dal Fermo e Lucia alla versione definitiva, Manzoni non asseconda un movimento verso una lingua sempre più bella, un ideale stilistico, ma si muove invece nella direzione di privilegiare una lingua che gli sembri il più accettabile possibile da una comunità nazionale”.

“Per questo – conclude il professor Beccaria – è importante esaminare le varianti linguistiche nella prospettiva della storia linguistica, lavorare cioè sulle varianti concependole come frutto di una tensione tra individuale e collettivo. Non dare loro un giudizio di valore ma un giudizio di socialità”.

Un approccio importante, quello del professo Beccaria, come ha poi ben rimarcato a fine conferenza il Direttore dell’Istituto di Studi italiani, Stefano Prandi: “C’è stato finora uno studio di Manzoni attraverso la minuta analisi linguistica e stilistica di ogni singolo passaggio della sua opera, ma questa sera abbiamo sentito qualcosa di davvero diverso, un approccio molto forte: Manzoni è stato rivoluzionario nella sua attenzione alla realtà, appropriandosi appieno di quella lotta che per secoli gli scrittori italiani hanno condotto, una lotta per conquistare la realtà tramite le parole ovvero per far sì che le parole fossero anche cose. Dunque, una chiave di lettura, quella di questa sera, amplissima e importante”.

Laura Quadri

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