Locarno Film Festival

Maradona, la complessità di un mito

Locarno Film Festival 2019 - «Diego Maradona»

Un’immagine dal film Diego Maradona di Asif Kapadia.

«Non l’ha ancora visto. Volevo organizzargli una proiezione privata, ma era sempre occupato. Diego non ha visto il film, lo vedrete prima voi in Piazza Grande di lui». Asif Kapadia, regista di Diego Maradona, di confessioni ieri ce ne ha fatte due: quando intervistò Maradona a Dubai, dove abita, Pibe de oro era seduto sul divano alle prese con altri cento stimoli (tutti lo reclamano in continuazione) e quindi Kapadia, per consentire al microfono di inclinarsi nella giusta angolazione, si sdraiò sul tappeto e catturò così, in modo davvero non convenzionale, la chiacchierata. Notando pure che Maradona aveva proprio dei bei polpacci. Diego e/o Maradona: il film del regista inglese di origine indiana parteggia sicuramente per Diego, per il quindicenne che, sputato fuori da una bidonville ai margini di Buenos Aires grazie all’ossessione per il pallone, diventa per tutti (e per sempre) la leggenda del calcio per antonomasia. Ma non censura affatto il violento viaggio negli abissi della droga del Maradona ormai sul tetto del mondo. 130 minuti sono un tempo sufficientemente dilatato per contenere anche i misteri di quel declino, di quell’avvicinamento alla camorra (sempre e solo per procacciarsi donne e cocaina, un approdo quasi ingenuo), le (prima insospettabili) antipatie attirate dal campione, il rigetto da parte dei napoletani (per i quali era assurto al pari di un Dio, se non al di sopra). Il terzo documentario di Asif Kapadia (dopo quello su Senna e Winehouse) non esclude nemmeno l’ultimo degli spettatori, quello che il calcio lo odia: perché ci racconta di un uomo complesso, istrionico, dotato di un talento straordinario e di una personalità magnetica che seducono tutti, colpiscono il mucchio. Diego Maradona: 1 metro e 67 di altezza, sì, ma che di uomini ne contiene almeno due. Quello solidale, che dal 1984, ai tempi del Napoli (cui ha restituito prima la dignità, poi le vittorie, poi la classifica, poi gli scudetti, poi la coppa UEFA) abbraccia Ciro Ferrara con l’affetto che si destinerebbe a un fratello di sangue. O al mister. O al coach. Tutti pezzi di Diego, fondamentali per la sua salute mentale, mica solo per vincere su quei 110 metri di erba verde. Accanto alla caccia al tesoro generale (si è trattato di estrapolare i momenti migliori nascosti in 500 ore di girato), Kapadia ha guardato con riconoscenza alcuni filmini di famiglia finora blindatissimi. Forse Diego ha concesso al regista di usarli perché anche Kapadia, da spettatore, adora il calcio, lo ama sinceramente, e da ragazzo lo riscopriva soprattutto ai Mondiali. Dal 1982 al 1994. Ed è all’Università che ha iniziato a leggere di lui, del grandissimo Pelusa (per via della capigliatura, imitatissima). Immaginandosi immediatamente un film; che 25 anni dopo è arrivato. Lentamente, e per fortuna: abbiamo assaporato immagini dense, corpose, piene di dettagli, accorgimenti che solo chi ha sedimentato un amore, chi è perpetuamente innamorato di ciò che fa può consegnare anche esteticamente, o a livello di contenuti, all’opera. Un amore che ha superato addirittura la partita Argentina-Inghilterra del 1986, difficile da mandare giù per un regista inglese. Maradona, dunque: genio o baro? Angelo o demone? Giustamente sacralizzato o giustamente desacralizzato? Chi lo sa. Tutti sbagliamo, ma non tutti abbiamo vinto – quasi esclusivamente grazie a noi, al nostro genio, talento personale – l’equivalente di una coppa del mondo, e tutto il resto. Nessuno di noi per uscire a farsi una pizza deve accompagnarsi a una montagna di guardie del corpo, sennò ti schiacciano. La popolarità, quando assume dimensioni mostruose come quella che ha incrociato il cammino, o il campo da calcio, di Diego Maradona, è una bestia ingombrante, che può atterrarti non meno subdolamente di un nemico che in guerra ti spari alle spalle. E l’assenza di giudizio per questa ex star del calcio e della vita, quest’uomo ormai grasso e piagnucolante, esposto al pubblico ludibrio, questa tregua nei suoi confronti si è (per fortuna) prodotta anche in Piazza Grande, dove per una volta si è ammirata l’intera parabola di Diego Armando Maradona. Dalle stalle, alle stelle, alle stalle… ma non finisce qui, ne siamo più che certi. Capire in quale “porta” farà goal adesso.

Margherita Coldesina

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