Commento

Non solo Trieste: Raoul Pupo narra la storia dell’italianità adriatica

Italianità adriatica (Laterza 2025) di Raoul Pupo traccia il percorso storico delle aree italiane dell’Adriatico, attualmente parte di Slovenia e Croazia. Il testo esplora le tappe cruciali di questi territori, partendo dalle radici della loro formazione, attraversando il periodo di nazionalizzazione e politicizzazione del XIX secolo, fino agli eventi tumultuosi del Novecento e al loro impatto sulla memoria collettiva. La narrazione, che prende avvio nell’Ottocento, segue le vicissitudini degli italiani nella zona adriatica con particolare attenzione a Trieste, descritta come città sofisticata, multiculturale e singolare nel suo isolamento. Pupo evidenzia da subito come l’italianità adriatica sia stata principalmente un fenomeno urbano. Dal punto di vista linguistico, mentre l’italiano fungeva da lingua che superava i confini nazionali, il tedesco, pur imposto come lingua d’istruzione nei ginnasi per formare i funzionari imperiali, non riuscì mai a radicarsi tra la popolazione comune né a competere con l’italiano come lingua di cultura.

L’autore esamina le vicende di centri adriatici quali Fiume, Zara, Spalato, Capodistria, Pola, Pisino, Parenzo, dove i movimenti nazionalisti italiani e slavi si trovavano in totale antagonismo. La narrazione prosegue con l’argomento dell’Italia irredenta e il triestino Guglielmo Oberdan, rifugiatosi in Italia dopo la diserzione dall’esercito asburgico. Significativa è la posizione di Francesco Crispi, ex garibaldino che, una volta divenuto presidente del Consiglio, non esita a definire l’irredentismo il più dannoso degli errori in Italia. A Trieste il Partito Socialista emerge come l’unica autentica formazione politica moderna e popolare. Proprio questa città ospita un’eccezionale cerchia intellettuale. Scipio Slataper, Carlo Stuparich, Giani Stuparich, Italo Svevo, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Umberto Saba, tra gli altri, sono caratterizzati da irrequietezza e da una vigorosa energia giovanile tipica dell’irredentismo culturale. Per Slataper, il compito storico di Trieste è di essere crogiolo di civiltà – pensiero poi ripreso dalla cultura antifascista triestina.

Nel 1914, la Prima Guerra Mondiale vuol dire molte cose sul litorale adriatico: Grande Guerra, guerra totale, inter-imperialista, balcanica, d’indipendenza italiana. I militari provenienti dal Litorale vengono inviati principalmente in Galizia per fronteggiare l’esercito russo. Tuttavia, nel 1918 l’Ungheria si trova costretta a ripiegare fino al Danubio. A Versailles, l’Italia avanza richieste massimaliste, reclamando sia i territori promessi nel Patto di Londra che Fiume, basandosi su due principi contrastanti. Da un lato la linea di confine sullo spartiacque alpino per motivi strategici e non etnici. Dall’altro rivendica Fiume appellandosi al principio di nazionalità. Raoul Pupo scrive che il paese si trova in una posizione di corteggiamento diplomatico. E l’Intesa, promettendo territori non propri, le ha fatto promesse impossibili da mantenere. Dopo la guerra, tuttavia, l’Italia perde la sua rilevanza strategica. Il suo contributo bellico con l’Intesa non è determinante, avendo sconfitto l’Austria dopo la de facto sconfitta della Germania.

A Versailles si applica il principio di autodeterminazione esclusivamente alle popolazioni vincitrici, escludendone quelle sconfitte. Questa scelta provoca innumerevoli tensioni, poiché nei nuovi Stati nazionali si trovano incluse, contro la loro volontà, minoranze etniche di varia consistenza. La combinazione tra irredentismo e revisionismo si dimostra quindi esplosiva. In Italia il senso di delusione è profondo e trova in Gabriele D’Annunzio il suo massimo interprete. Il poeta occupa Fiume con l’intento di assicurarla all’Italia, cercando di costringere il governo romano ad annetterla. Giovanni Giolitti riesce a concludere il Trattato di Rapallo, che assicura il confine ideale e ottiene il disimpegno jugoslavo su Fiume in cambio della Dalmazia, ritenuta indifendibile. Per il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni è un disastro che alimenta ostilità. Per l’Italia costituisce un successo, riconosciuto da tutti – incluso Benito Mussolini che sostiene Giolitti – tranne che da D’Annunzio. Da qui il Natale di sangue.

Il Vate si reca a Fiume non solo per salvaguardarne il carattere italiano, ma anche per rovesciare il governo del detestato Francesco Saverio Nitti, sostituendolo con uno nazionalista. Raoul Pupo sottolinea che D’Annunzio non può essere considerato un anticipatore del Fascismo, poiché la sua visione politica individualista e la sua concezione libertaria dello Stato sono all’opposto rispetto al regime totalitario. A differenza del movimento fascista, l’impresa fiumana non si propaga al resto d’Italia. Ma D’Annunzio e Mussolini emergono come i principali responsabili della fine dello Stato liberale. Sul terreno, il processo di attribuzione della cittadinanza italiana agli abitanti della Venezia Giulia è complesso. I dipendenti pubblici italiani che si oppongono a giurare fedeltà al nuovo Stato jugoslavo subiscono il licenziamento. Raoul Pupo evidenzia come la politica di snazionalizzazione abbia fatto nascere un nuovo movimento irredentista, mentre il regime fascista lo ha relegato alla clandestinità, spingendolo alla resistenza armata.

Negli anni Venti e Trenta, l’italianità adriatica s’identifica con il Fascismo. Il regime fascista si proclama l’erede del Risorgimento. E per sloveni e croati, l’unica manifestazione dell’Italia con cui entrano in contatto è quella rappresentata dal Fascio. Alcuni ex esponenti irredentisti, come Fulvio Suvich, sottosegretario agli Esteri dal 1932 al 1936, si distinguono come difensori dell’autonomia austriaca dall’influenza del Terzo Reich, puntando a trasformarla in un satellite italiano. Si afferma così un’italianità caratterizzata dall’intolleranza. Non è casuale che proprio Trieste, alle soglie di quel Terzo Reich che dopo l’Anschluss si affaccia alle Alpi, venga scelta da Mussolini per annunciare l’introduzione delle leggi razziali. Raoul Pupo sottolinea come la regione giuliana si distingua per un’applicazione zelante della legislazione antisemita. Tre armate si preparano ad avanzare verso Lubiana e Zagabria, ma Berlino interviene perché vuole evitare complicazioni nell’area balcanica. Pur acconsentendo, Mussolini nutre risentimento.

La sua reazione si concretizza nella campagna di Grecia, concepita per riequilibrare i rapporti nell’Asse, ma che si trasforma in un fallimento. Le forze greche respingono gli italiani quasi fuori dall’Albania. L’insuccesso porta all’intervento militare tedesco in Grecia, preceduto dalla sottomissione della Jugoslavia. Mussolini ha fornito appoggio al movimento separatista ustaša di Ante Pavelić con l’intento di trasformarlo in uno strumento d’influenza. L’Italia occupa senza difficoltà la Slovenia meridionale, parte della Croazia, la Dalmazia e il Montenegro. Ma questa regione, sottolinea Raoul Pupo, non è mai stata integrata nello spazio nazionale italiano, nemmeno sotto l’aspetto culturale. Roma decide di annetterla solo per impedirne l’acquisizione tedesca. Tuttavia, la Dalmazia è considerata terra redenta e trattata come le regioni annesse nel 1920. Il processo di italianizzazione deve essere completato con estrema rapidità sotto il governatore Giuseppe Bastianini, ex ambasciatore a Londra e tra i fascisti più ortodossi.

Ma, contrariamente alle aspettative, in Dalmazia gli italiani locali non mostrano entusiasmo. L’Italia ha portato loro il conflitto. Si sviluppa una confusa “guerra di liberazione” contro le forze occupanti. Dopo essersi espansa oltre misura, l’italianità imperiale crolla trascinando con sé l’intera italianità adriatica. Il cambiamento è totale. Gli italiani, prima dominatori assoluti, dopo l’8 settembre 1943 perdono il loro status. Zara si consegna senza resistenza. Spalato precipita nel disordine, con le forze ustaša che la circondano. L’Istria è percorsa da gruppi di militari. Le strutture di autorità si disgregano e nella confusione si verificano eventi di ogni tipo: manifestazioni di gioia, espressioni di odio, furti, saccheggi di ogni genere. L’operazione inizia immediatamente, con l’assoggettamento del PCI, che in Istria ottiene consensi con relativa facilità. S’instaura un clima di furore popolare.

I tedeschi controllano direttamente OZAK (Zona d’operazioni del Litorale adriatico), guidata dal Gauleiter Friedrich Rainer. L’OZAV (Zona d’operazioni delle Prealpi), d’altra parte, è sotto il controllo di Franz Hofer. Entrambe le zone non sono più considerate territorio italiano. L’autorità repubblichina sulle province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, rispettivamente di Belluno, Trento e Bolzano, è solo formale. La RSI non può nemmeno condurvi la coscrizione militare e pian piano il Litorale Adriatico non è più considerato territorio italiano. A Pisino le foibe diventano l’emblema di quel periodo di violenza, scelte come luogo per nascondere i corpi perché in un terreno calcareo roccioso è impossibile scavare fosse comuni. Dopo l’esperienza delle foibe istriane, i partiti antifascisti nutrono profonda sfiducia nei confronti dei comunisti jugoslavi e si mostrano riluttanti a collaborare con loro come suggerito dal PCI.

Sul finire della guerra, a Milano i negoziati riguardano esclusivamente Trieste e Gorizia. Nel Litorale, le comunità italiane subiscono l’ondata di violenze nella primavera-estate del 1945: è una catastrofe. Il terrore di una nuova ondata di violenze si propaga rapidamente. Il governo italiano implora quelli britannico e americano di occupare la Venezia Giulia per prevenire la morte di migliaia di connazionali. All’autorappresentazione italiana incentrata sulla vittimizzazione si contrappone una narrazione giustificazionista jugoslava che tende a ridimensionare la portata delle uccisioni di massa. Gli italiani della Venezia Giulia favorevoli all’Italia vivono l’occupazione jugoslava come il periodo più tragico della loro storia. Il fattore discriminante è l’adesione al movimento di liberazione jugoslavo. La Slovenia è l’epicentro delle stragi. Raoul Pupo sottolinea come l’equazione “italiano = fascista” sia condivisa sia tra la popolazione slovena e croata, sia tra i quadri partigiani.

Nel 1945 l’Italia è sconfitta su tutta la linea. Non si è trattato di una guerra subita, ma deliberatamente scelta. L’Italia non ha subito aggressioni né minacce, nonostante l’impreparazione del Paese. Raoul Pupo ricorda che la guerra è finita malamente, con una sequela di sconfitte, l’implorazione umiliante di aiuto alla Germania, il crollo militare, la resa senza condizioni, il collasso dello Stato, il Paese ridotto alla condizione preunitaria di campo di battaglia fra opposte grandi potenze. Tutti gli italiani hanno pagato le conseguenze della guerra, soffrendo perdite familiari e povertà, disillusione e mancanza di fiducia. Nel giugno 1945 le forze jugoslave si ritirano da Trieste e Gorizia. La Venezia Giulia è suddivisa in due zone di occupazione. La zona A sotto amministrazione anglo-americana e la zona B affidata a quella jugoslava. Pola è l’eccezione: un’exclave della zona A per l’insistenza britannica.

Gli anglo-americani hanno preso parte alla corsa per Trieste non per compiacere gli italiani, ma per necessità strategiche legate al porto mitteleuropeo sull’Adriatico per sostenere l’occupazione alleata in Austria. Tutte e quattro le grandi potenze riconoscono che la Jugoslavia – aggredita, smembrata, occupata e vittoriosa – meriti risarcimenti a spese dell’Italia. Ma Londra e Washington sono determinate a impedire che Trieste finisca sotto controllo jugoslavo, equivalente a controllo sovietico. Nel 1946 l’Italia non è considerata uno Stato alleato né amico, ma un Paese nemico occupato. Si assiste così alla perdita definitiva dell’Istria, di Pola, di Zara, di Fiume. Raoul Pupo osserva che gli Alleati hanno impedito che Trieste si trasformasse nel porto adriatico dell’URSS. La creazione di un Territorio Libero (TLT) sotto l’egida dell’ONU è la soluzione più appropriata. Ma gli italiani non sono soddisfatti, avendo sperato di conservare almeno parte dell’Istria e ritrovandosi privati anche di Trieste.

Allo stesso modo, nemmeno gli jugoslavi sono contenti, avendo confidato nella rivendicazione “Trst je naš” (“Trieste è nostra”). La principale conseguenza della nuova ondata repressiva è il sentimento di esasperazione. L’esodo – alla stregua dell’anticomunismo e dell’antislavismo – rappresenta la frattura storica che interrompe bruscamente una continuità bimillenaria. Raoul Pupo evidenzia come nell’esilio sia maturata la consapevolezza di un destino comune, portando alla creazione di categorie concettuali quali popolo dell’esodo. Emerge una minoranza intimorita, sebbene l’obiettivo sia la salvaguardia di un’italianità ridotta all’essenziale. La linea Morgan, che separa la zona A e B fino al settembre 1947, è fonte di continue tensioni tra le forze occupanti. L’italianità che viene sostenuta nelle strade e nelle piazze attraverso manifestazioni, scontri e attentati è quella tradizionale in opposizione al nemico storico slavo. Trieste rappresenta per l’intera Italia il simbolo della Patria, descritto come baluardo dell’Occidente.

La città è diventata un centro di spionaggio paragonabile a Berlino e Vienna, un argine contro il Comunismo. Alcide De Gasperi, originario di terra di confini e difensore dell’italianità adriatica, intrattiene relazioni dirette con gli anglo-americani. Il consenso popolare conferma che la nuova fase risorgimentale triestina è guidata dalla DC, mentre i comunisti si dividono tra cominformisti e titoisti, impegnati in conflitti interni. Si verifica uno slittamento verso destra di un’italianità esasperata. Raoul Pupo afferma che l’identità di frontiera, plurale e cangiante, diviene il grande nodo, esplorato nei suoi sorprendenti riflessi da studiosi capaci di muoversi con disinvoltura fra Adriatico e Danubio, tra storia, letteratura e scienze sociali. Gli intellettuali elaborano visioni elevate con il sostegno dei politici, sviluppando il mito della Mitteleuropa e l’immaginario giuliano, spaziando dalla saggistica accademica alla narrativa popolare.

Amedeo Gasparini

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