Letteratura

Premio Möbius Multimedia Lugano: la digitalizzazione e gli interrogativi della memoria

Cinque eccellenti relatori, un tema complesso e poliedrico come quello del rapporto tra digitale e memoria, e un contesto che di anno in anno si riconferma per l’eccellenza della sua offerta: il Premio Möbius Multimedia Lugano, giunto ormai alla sua 23esima edizione e istituito dalla Città di Lugano e dalla Radiotelevisione Svizzera nell’allora 1997, in collaborazione con il Prix Möbius International. Sono queste le coordinate del Simposio tenutosi ieri pomeriggio nell’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana. Il punto di partenza la memoria, che “non solo si presta a essere consultata, ma è anche lei che consulta noi”, come nota il moderatore del dibattito, Alessio Petralli, direttore della Fondazione Möbius Lugano, citando Marco Balzano. La memoria ci “consulta”, ci interroga profondamente, come mai prima d’ora. “Siamo davanti a una delocalizzazione della memoria che smette di essere una questione personale ma si trasferisce su un supporto collettivo (pergamena, libro, o disco rigido che sia). Così, abbiamo tre spazi di vita: quello reale, quello mentale, e quello dello spazio dello schermo, che occupiamo secondo regole e comportamenti diversi”, esordisce lo psicotecnologo Derrick de Kerckhove, primo relatore, introducendo il tema. Al centro di questa trasformazione, la nascita di un nuovo fenomeno, quello del “gemello digitale”: “Se dentro di noi abbiamo un centro decisionale che crea il sentimento di un ego, adesso che la conoscenza emigra sui supporti digitali emigra anche la conoscenza del se, che diventa l’intermediario tra la cultura digitale e la cultura biologica”. Ma Kerckhove, tra i più scettici dei cinque relatori, mette in guardia: “Sempre più spesso spostiamo contenuti dalla nostra memoria a quella del telefono, che è fuori dalla nostra testa; con questo entriamo in una sorta di crisi del giudizio, dell’intelligenza. Il fatto che dobbiamo “uscire” dalla nostra testa, cioè, fa sì che abbiamo molto meno accesso alle fonti del giudizio”.

Altro tono e altro approccio, invece, per la semiologa SUPSI Nicla Barioli, che affronta il tema da un punto di vista antropologico e sociale. “Si parla spesso, oggi, di trasferimento completo, di “backup” della nostra coscienza su un supporto digitale. Questo darebbe luogo a quella che chiamiamo singolarità, il superamento cioè delle macchine dell’intelligenza umana”. Una visione condivisa dai più, attesa anche, perché permetterebbe all’uomo di ovviare alla sua finitezza; nei supporti esterni l’uomo trova il modo di vincere la propria fragilità. Ma la vera domanda è un’altra: “Un’altra corrente di pensiero ha messo in evidenza che il nostro cervello è un organismo plastico che ha costantemente bisogno di fare esperienza. Dunque i dispositivi di esternalizzazione della memoria come potenziamento o limite? Oggi, riprendendo una metafora di Luciano Floridi, siamo nel “regno delle mangrovie”, nell’iper-storia, dove tutto è registrato, documentato, il che dà vita a una neorealtà; una svolta che è impossibile rinnegare. Dobbiamo solo capire come farne un passaggio virtuoso per l’uomo”.

E la chiave per compiere questo passaggio, indica la prof.ssa Barioli, sta nel capire a fondo cosa intendiamo quando parliamo di memoria: “La memoria è qualcosa che va molto al di là della mera catalogazione; è molto di più un movimento verso la significazione delle cose”. Da qui la funzione fondamentale della cosiddetta “appropriazione simbolica”: “Molto importante è capire la distinzione tra l’esternalizzare della memoria e al contempo l’azione di delegare. Non dobbiamo delegare i compiti rivestiti dalla nostra memoria; quest’ultima deve rimanere qualcosa che ci appartiene, anche davanti alle sconfinate possibilità del digitale. Dobbiamo continuare ad appropriarci dei “simboli” che costituiscono la nostra collettività”. “La partecipazione riflessiva a una cultura è ciò che rende il patrimonio della memoria un valore. È la costruzione del capitale semantico che rende l’uomo unico, che lo distingue dalle macchine”. “Utile in questo è la narrazione, che ci permette di condividere gli eventi e di negoziarli con la collettività, per renderli nostri. La narrazione è un momento in cui le memorie singole si saldano attraverso le memorie collettive, un’unione che è sintonia tra chi parla e chi ascolta. La digitalizzazione non deve essere un ostacolo a tutto questo”. “Ricordiamo – conclude Barioli – l’etimologia del termine memoria, da cor, cordes: è possedere, avere nel cuore, fare proprio. Mi auguro che questo nostro mondo possa essere sempre più una realtà in cui gli archivi siano parte di noi stessi e in intimità con i nostri cuori”.

Poi, ad intervenire, Mauro Dell’Ambrogio, già Segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SEFRI), che ha ricordato l’importanza della digitalizzazione anche in diverse professioni, tra cui la sua. Il passaggio al digitale sarebbe stato però “la prevalsa dell’analitico sul sintetico”, un surplus di informazioni e dati da una parte con “enormi guadagni di conoscenza”, dall’altra però costringendoci a rivedere il nostro ruolo: vittime o protagonisti di questo processo? Dell’Ambrogio è fiducioso: “qualche sacrificio in questo cambiamento epocale, ma anche qualche guadagno”.

Quindi la parola a Gabriele Balbi, professore di storia dei media USI: “Da storico dei media ritengo che la digitalizzazione abbia una sua storia che parte dall’Ottocento e, soprattutto, che essa abbia una memoria di se stessa. La digitalizzazione, nel tempo, si è “autonarrata”; una narrazione che ha poi acquisito un valore politico”. Da qui la necessità di ripercorrere e mettere in luce i miti legati alla digitalizzazione. “La sua, come ogni storia, è una storia fatta di eroi: pensiamo a Turing, Wiender, Cerf, Steve Jobs. Ma ci sono anche luoghi e aziende simbolo di questo processo, come la Olivetti, la Silicon Valley”. Si dipana così una vera e propria “storia” della digitalizzazione a più fasi: dal ventennio 1950-70 quando essa era nelle mani dei governi, alla sua democratizzazione nel decennio 1980-1990, dove la digitalizzazione era per tutti buona, positiva, un aiuto. Fino al 2010, dove invece la tendenza si inverte: essa necessita di sorveglianza, controllo perché è cattiva, dannosa. La narrazione cambia, ma soprattutto cambia anche la politica soggiacente.

La storia della digitalizzazione, nota Balbi, è una storia che presenta, alla luce di tutti questi aspetti, diverse caratteristiche portanti: “Ci fanno vedere come sia una storia raccontata perlopiù dai vincenti. Inoltre è una memoria costantemente rivolta al futuro: il suo beneficio è sempre in divenire. Ma è anche una memoria strettamente stereotipata, a vantaggio delle aziende e dei neocapitalismi: qualcosa che ci viene presentato come inarrestabile. La digitalizzazione non deve arrestarsi. L’autonarrazione è questo”.

Da ultimo la parola a Sarah-Haye Aziz, intervenuta al posto di Milena Foletti, per la RSI. “Alla RSI la conservazione della memoria è un concetto fondamentale, conservazione ma anche trasmissione, accessibilità. Riprendendo Derrida, potremmo dire di credere, come azienda, che nessun archivio è mai “all’esterno”. L’accessibilità di quanto conserviamo è fondamentale”. Ma è il 2000 che segna per la RSI un vero cambiamento; inizia infatti un vero e proprio processo di digitalizzazione. L’archivio audiovisivo diventa un prisma attraverso il quale si creano dei ricordi, “ma non è soltanto nostalgia, bensì espressione di un patrimonio culturale”. Da qui l’idea di ideare un nuovo slogan RSI: non più “RSI – Parte del tuo mondo”, ma “RSI – La tua storia”, “proprio per sottolineare il rapporto con il pubblico, al quale viene restituito il grande patrimonio audiovisivo che conserviamo”.

Laura Quadri

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