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Presentati gli Atti del progetto Lugano Città Aperta

Noi dobbiamo partecipare a questa guerra tra il progresso e l’inerzia, tra il pensiero e l’ignoranza, tra la gentilezza e la barbarie, tra l’emancipazione e la servitù. Il dovere nostro è di conferire le poche forze nostre a questa impresa comune dell’umanità (Carlo Cattaneo)

Fare memoria non deve essere un compito del quale ricordarsi una sola volta all’anno, in occasione della Giornata della Memoria: deve piuttosto essere un impegno che ci prendiamo per la vita. Ne sono convinti tutti i partecipanti dell’intensa mattinata svoltasi oggi, mercoledì 23 gennaio, nell’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana, in occasione della presentazione degli Atti del progetto Lugano Città Aperta, a cura di Pietro Montorfani, Giacomo Jori e Sara Garau (Lugano, Edizioni Città di Lugano, 2018).

L’evento è stato promosso dalla Fondazione “Federica Spitzer”, dall’Istituto di studi italiani dell’USI e dall’Archivio storico della Città di Lugano, con il sostegno del Dipartimento istituzioni del Canton Ticino e del Programma di integrazione cantonale PIC.

Esso si pone a conclusione di una serie di iniziative volte alla valorizzazione della tradizione umanitaria di Lugano e della Svizzera italiana verso chi ha subito l’oppressione politica, la persecuzione razziale e religiosa e la negazione della libertà. Lo scorso aprile l’Istituto di Studi italiani dell’USI ha promosso una giornata di studi intitolata “Lugano al crocevia: esuli, esperienze, idee”, seguita dall’inaugurazione al Parco Ciani di un Giardino dei Giusti, Giardino che intende rendere omaggio a quattro figure di ticinesi che con il loro impegno tangibile hanno contrastato l’oppressione e/o salvato la vita di chi era perseguitato.

A dare il benvenuto al pubblico, questa mattina, per la presentazione degli Atti, il rettore dell’USI, Erez Boas, che ha ricordato come lo sterminio nazista sia un “tema che ci riguarda tutti, si può affrontare dal punto di vista storico ma va molto al di là dell’importanza storica per la tragedia che rappresenta. La questione della responsabilità, della colpa è un tema che ci dovrebbe riguardare da vicino”.

“Filosoficamente, citando Agamben, possiamo dire che l’uomo è un essere vivente dotato di linguaggio. Partendo da questa definizione si capisce cosa Auschwitz rappresenti veramente. Rappresenta in questa prospettiva l’essere parlante ridotto al silenzio, un’esperienza in cui l’impossibile viene fatto transitare a forza nel reale”.

“Non dobbiamo sottostimare – ha proseguito il Consigliere di Stato Norman Gobbi nei saluti iniziali – ciò che la memoria ha portato a galla. Ricordare implica capire, uno sforzo, una precisa presa di coscienza. La memoria ha un ruolo di primaria importanza perché non ci fa cadere nell’errore. Non è fine a se stessa, ma permette di analizzare quanto ci circonda. Rifiuta il falso dei negazionismi. La memoria è storia, va alimentata. La storia chi la fa? Noi, con le nostre azioni e le nostre scelte”.

“Ricordare è anche educare: sussiste infatti il rischio che i soprusi si affievoliscano. Un rischio che va scongiurato attraverso l’educazione delle nuove generazioni. Chi non sa va informato. E questa educazione passa anche da atti concreti, come il nostro Giardino dei Giusti. Leggere ora, con questa pubblicazione, le gesta di questi uomini è quanto di più didattico ci possa essere”.

Quindi la parola al Sindaco di Lugano, Marco Borradori: “Non si può dire che un libro come questo, che viene oggi presentato, sia solamente un insieme di pagine. Porta invece alla luce un inestimabile patrimonio di umanità ancora sconosciuto e una storia fatta di atti d’altruismo compiuti da persone comuni. Persone comuni – sottolinea – che hanno guardato in faccia la realtà e che si sono impegnate per dare una risposta al male che vedevano; tutti noi siamo interpellati da questa gente, i “giusti” che hanno trovato il loro compimento il 26 aprile dello scorso anno, con l’inaugurazione del Giardino. Opporsi a false ideologie con cui ancora oggi si giustificano crimini ed abomini, non arrendersi mai al male: questo è il grande lascito dei nostri Giusti. Dare valore a loro è un compito a cui non dobbiamo mai sottrarci. La Svizzera, culla dei diritti democratici, deve impegnarsi per combattere per i valori che essi ci hanno trasmesso. Così, questo volume è proprio questo: una sorta di scrigno da cui, ad ogni riga, ciascuno di noi può attingere qualcosa di essenziale”.

Parla con altrettanta gratitudine Moreno Bernasconi, Presidente della Fondazione Spitzer, ricordando quanti insegnanti e quante scuole ticinesi, negli ultimi anni, si sono messi in campo per fare un lavoro di riflessione e di responsabilizzazione nei confronti dei ragazzi, posti davanti all’orrore dei genocidi: “Circa 2000 studenti coinvolti nell’arco di 3 anni in 30 sedi scolastiche diverse che hanno lavorato per imparare e per crescere e, soprattutto, per ricordare quanto sia importante fare memoria. Questo deve farci riflettere, c’è qualcosa in atto. Il Premio Federica Spitzer di quest’anno in particolare è andato alle classi di Chiasso, i cui docenti hanno approfondito il tema della memoria in modo trasversale, in ogni materia”.

“La cosa che più colpisce – sottolinea Bernasconi – è la quantità di gente che il progetto Lugano Città Aperta ha mobilitato, grazie anche alla collaborazione dell’Università che ha messo in campo un valore etico aggiunto. Oggi tutto questo è molto visibile. Potrebbe dar vita ad un piccolo cantiere di studio, dato che il volume dimostra molto bene l’affinità tra storia e letteratura”. E quindi uno spunto interessante: “Potrebbe questo preludere a qualcosa per il futuro dell’USI?”, si chiede Bernasconi.

Entrando nel merito del volume, Stefano Prandi, Direttore dell’Istituto di Studi italiani, ha ricordato i suoi pregi: “Anzitutto, ci permette di ridiscutere da una prospettiva elvetica una questione oggi attualissima: l’unità politica dell’Europa e il ruolo di mediazione svolto dalla Svizzera. Poi, da una parte, ci permette di sottoporre a verifica la fondatezza di alcuni miti identitari della Svizzera, come l’anelito alla pace che porta alla scelta della neutralità e questo lungo un ampio arco cronologico. Da ultimo, il volume allarga l’analisi oltre la dimensione locale, interna, offrendo invece una pluralità di prospettive e un’osservazione più ricca del fenomeno dell’accoglienza”.

Quindi Pietro Montorfani ha illustrato, assieme al prof. Giacomo Jori, le specificità del volume: “È un volume – spiega Montorfani – di quasi 400 pagine. Non volevamo che dei Giusti rimanesse solo la targa al Parco Ciani, volevamo entrare nel vivo di queste personalità, conoscerle e illustrarvele, ricostruendo anche il contesto della Svizzera italiana dell’epoca in cui hanno vissuto. Così incontriamo di nuovo don Francesco Alberti, attraverso uno spoglio dei suoi contributi giornalistici e d’altro canto della sua corrispondenza con don Luigi Sturzo. Possiamo vedere un Alberti radicalmente diverso, non solo un pacifista, ma un antifascista della prima ora. Qualcuno che andava controcorrente, capace di usare i mezzi di comunicazione per difendere le proprie idee”.

“Poi i coniugi Sommaruga. Mentre il marito svolgeva la sua delicata missione romana, nell’inverno 1943-’44, la moglie assicurò a più riprese, a Lugano, la trasmissione di informazioni provenienti da Roma a famiglie italiane in difficoltà in Svizzera e si fece garante per il loro statuto di rifugiati. Il carteggio tra i coniugi Sommaruga, conservato all’Archivio federale svizzero di Berna, è tra le più commoventi testimonianze di quei mesi cruciali, un limpido esempio di generosità civile e passione familiare, di cui il libro ne presenta degli estratti”.

“Cosa ci lascia in eredità questo progetto? Un libro e un giardino sono due oggetti culturali diversi ma fanno la stessa cosa: tengono vivo il ricordo. Sempre su questa linea, sono oggi contento di poter annunciare che la Fondazione Spitzer sta promuovendo la realizzazione di una piattaforma didattica per raccontare le vite dei Giusti luganesi, che si chiamerà “Le vite dei Giusti” e sta nascendo in collaborazione con la SUPSI e l’Archivio storico della Città di Lugano”.

“Vorrei dirvi la ragione – interviene quindi il prof. Jori – per cui il libro è importante, è necessario averlo, leggerlo e fondare a partire da esso dei cantieri di ricerca. Ci sono infatti dei luoghi comuni sul Ticino che necessitano di essere sfatati. Per molte persone, anche per i letterati, il Ticino non è molto di più che il luogo in cui, grazie a Contini, Montale ha potuto pubblicarle “Finisterre” nel 1943. L’immaginario di un italiano colto non va molto oltre questo, ma ci sono una quantità di cose in più da sapere”.

“Penso al saggio di Carlo Piccardi, che ci ha regalato un libro nel libro, un contributo di 80 pagine, di straordinario interesse. Richiama le presenze dal Nord in Ticino,  tra gli anni Venti e Quaranta e con grande garbo delinea nel saggio una vera storia, vista dal Ticino, delle avanguardie culturali europee che si sono incrociate qui. Cita un numero incredibile di personaggi, tutti quanti ospitati nella cornice di una “Elevetia mediatrix”. E della loro testimonianza colpisce l’eccellenza”.

Da ultimo, la parola è andata all’attesissimo ospite, il Direttore del museo di Auschwitz-Birkenau, Piotr Cywinski. “La prima domanda che ci si pose riguardo ad Auschwitz, una volta finita la guerra, è stata: cosa fare di tutto quello che resta di questa infrastruttura barbara? Nella discussione di alcuni sopravvissuti, c’erano delle idee chiare: “il mondo non capirà mai, va distrutto tutto”. Ma con il tempo si è capito proprio il contrario: proprio perché il mondo non capisce, bisogna porgli davanti l’evidenza, l’autenticità di quello che è stato, per quanto doloroso.

“I nostri visitatori giungono da tutto il mondo, le nostre guide parlano oltre 20 lingue diverse.
Ci sono dei programmi scolastici che prevedono la visita ad Auschwitz. Spesso chi arriva sa già molto. Allora perché vengono? Vengono per prendere la misura dell’autenticità di ciò che è accaduto, un’autenticità che neanche nella migliore riproduzione cinematografica ritrovano. Vogliono vedere la realtà. Una realtà che ci parla della vittima e del carattere massivo del genocidio. Sono due le “autenticità” che si incontrano qui: le nozioni imparate sul libro di storia diventano d’improvviso vere, tangibili e, al contempo, questo luogo terribile che è Auschwitz, con il loro commento, rivela la sua mostruosità. Cos’è l’autenticità? Bisogna viverla, essere sul luogo per capirla. Così la visita ad Auschwitz diventa una sorta di “rito di passaggio”. Se ne esce silenziosi, incapaci a parlarsi. Le parole ritornano giorni dopo. Ma è questa autenticità l’esperienza di base”.

E poi, il pensiero del Direttore va alla situazione attuale, verso la quale acutamente osserva:
“Oggi viviamo in un tempo in cui i rapporti tra individuo e comunità si ridefiniscono di continuo, un tempo dove la comunicazione è accelerata dalla tecnologia e tutto questo causa tra la gente incertezza, paure, stress. Si crea così lo spazio per i populismi, per i demagoghi, in Europa molto di frequente. Penso all’anno scorso e al genocidio più recente, quello dei Rohingya, minoranza islamica della Birmania in fuga verso il poverissimo Bangladesh. Il mondo? In un silenzio totale. Nello stesso momento la gente arriva ad Auschwitz con una domanda: come mai oggi cose simili si ripetono? Ecco, per me questi sono momenti molto difficili”.

“Concludo dando due indicazioni: secondo me, bisognerebbe guardare al passato con lo scopo di imparare a chiamare le cose per il loro nome, secondo una prospettiva antinegazionista. Inoltre, bisognerebbe accettare che la storia fa parte di noi, è una lezione, un’ispirazione. L’ideale sarebbe – e spero che i professori in sala mi ascoltino – trattare il tema dei genocidi anche nei corsi di etica, di religione, delle scienze sociali o politiche o quando si parla di mass media, così da renderci conto che quanto accaduto ha un legame forte anche con l’oggi”.

“Il mio obiettivo come Direttore del museo? Che la gente non ne esca solo triste, abbattuta, bensì inquieta: inquietata da se stessa. Non vogliamo donare delle risposte; noi quello che dobbiamo fare è garantire l’inquietudine morale nel nostro tempo”.

Laura Quadri

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