Archeologia

Quando l’arte diventa un’arma dell’Isis per il mnemocidio

Se il fanatismo è una deviazione intellettuale, dobbiamo rispondere con le armi dell’intelletto. Quando la cultura è sotto attacco, bisogna proporre ancora più strumenti culturali: tutti dobbiamo mobilitarci per difendere un patrimonio che è dell’intera umanità. – Irina Bokova, direttore Unesco (2009-2017).

Ospite della prima edizione del Festival Endorfine, l’archeologo ticinese Stefano Campana ha presentato alla Casa della Letteratura della Svizzera italiana di Lugano l’indagine sullo stato di devastazione del patrimonio archeologico di Mosul (Iraq), condotta insieme a un team di archeologi del dipartimento dei Beni culturali dell’Università di Siena (Matteo Vidale e Matteo Sordini), e rientrante in un progetto del Ministero dei Beni culturali e degli Affari esteri, diretto da Alessandro Bianchi e coordinato scientificamente da Stefania Berlioz.

 

Fotogramma da un video trasmesso dall’ISIS: distruzione statue e bassorilievi a Mosul.

La distruzione intenzionale del patrimonio culturale perpetrata dall’Isis durante il suo insediamento a Mosul (giugno 2014 – luglio 2017) marca una differenza radicale rispetto ai danni collaterali delle guerre precedenti, sia in termini quantitativi che concettuali. I beni culturali hanno sempre sofferto i conflitti, tuttavia, la differenza dei danni provocati dallo Stato islamico riguarda la spettacolarizzazione della distruzione. L’arte, per l’Isis, non è altro che un’arma per arricchirsi (prima di distruggere i siti li depredano per rivendere le opere al mercato nero), uno strumento di propaganda, un mezzo per attaccare e offendere l’Occidente e i nemici “interni” (oltre il 60% dei bersagli riguarda capolavori di arte islamica), cancellando la memoria dei siti culturali: mirano al “mnemocidio”, ossia l’annientamento della memoria storico-culturale di un popolo attraverso la distruzione di luoghi di culto, siti archeologici o opere d’arte che la rappresentano.

 

Fotogramma da un video trasmesso dall’ISIS: distruzione statue e bassorilievi a Mosul.

Il progetto a cui Stefano Campana ha preso parte ha coinvolto il massiccio utilizzo dei droni, tecnologie che si sono rilevate assai utili; hanno infatti permesso di scoprire nuovi scempi fatti dallo Stato islamico a Mosul, come quelli causati dallo scavo di enormi trincee, realizzate per nascondere armi, munizioni e viveri in vista dell’offensiva delle forze governative (ottobre 2016-luglio 2017). I jihadisti le hanno scavate spazzando via intere porzioni delle mura fatte costruire dal sovrano Sennacherib. Un’altra porzione delle mura è stata poi distrutta dalla costruzione di una strada (realizzata a partire dal 2014) che ha tagliato in due il sito archeologico. L’indagine ha inoltre documentato la demolizione del “Palazzo senza eguali“, la sede imperiale di Sennacherib, e le porte di Nergal, Adad e Mashqi, lungo le mura neo-assire della città.

 

Valutazione dei danni provocati, scelta mirata del patrimonio da proteggere, documentazione, trasmissione dei dati e delle conoscenze (atta a informare e formare chi vive nel territorio), realizzazione di una mappa dettagliata per elaborare un eventuale piano di restauro e ricostruzione: sono queste le tappe principali che il team archeologico di Stefano Campana ha affrontato nel progetto.

L’archeologia è «uno strumento per la ricostruzione della Storia», o, come direbbe uno dei massimi archeologi italiani, Andrea Carandini, «le storie della Terra», ed ha un’importante funzione pubblica – ha precisato Stefano Campana –, ricostruire e alimentare la memoria collettiva dei luoghi e delle identità, che sono sempre più importanti in un mondo fortemente globalizzato. L’archeologia permette inoltre di costruire delle relazioni, perché, dalla creazione dell’Unesco, avvenuta dopo la seconda guerra mondiale (16 novembre 1945) è stato giustamente promosso il principio dell’universalità del patrimonio archeologico e artistico: appartiene a tutti ed è dovere di tutti proteggerlo.

Lucrezia Greppi

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