Cultura

Quella volta che seppellirono E.T.

Il Giappone è la terra del sushi, dei manga e dei videogiochi. Nulla di più vero: oggi l’impero nipponico è una sorta di mecca per gli appassionati di pesce crudo, fumetti e videogame. Il fiorente e pittoresco quartiere di Akihabara, nel centro della capitale del Paese, è un ricettacolo di appassionati. Li potete trovare ovunque, chini sulle loro console portatili mentre consumano l’ennesimo complicatissimo gioco di ruolo o radunati in piccoli gruppi nelle sale giochi, che laggiù ancora sopravvivono.
La verità è che non è stato sempre così: il Giappone, fino all’inizio degli anni Ottanta, non era certo legato al mondo dei videogiochi. Fu infatti un curioso episodio a spostare l’ago della bilancia commerciale del videogioco verso l’Oriente, un episodio avvenuto a Hollywood nell’ufficio di uno dei più grandi registi del tempo, Steven Spielberg.

Un’immagine dal film “E.T. L’Extraterrestre” (1982).

L’anno è il 1982. Dopo un breve passaggio al Festival di Cannes, nelle sale cinematografiche americane esce E.T. L’Extraterrestre. Il successo è stratosferico, e negli Stati Uniti scoppia una vera e propria smania per il cucciolo di alieno. Magliette, pupazzetti, intere linee di giocattoli: l’“E.T. mania” coinvolge tutti, persino il nascente mercato dei videogiochi. All’epoca, l’unica azienda con il potere economico per tentare di stringere un accordo con Hollywood era la californiana Atari, fucina di alcuni dei più grandi successi del tempo e centro nevralgico della creatività videoludica americana. Atari è determinata a creare il videogioco di E.T., e per farlo strappa a Spielberg un accordo astronomico da oltre 20 milioni di dollari per garantirsi i diritti di pubblicazione.

C’è un unico problema: è arrivata l’estate e il gioco deve arrivare nei negozi entro Natale, lasciando ad Atari meno di cinque mesi per creare il gioco da zero.
Con una mossa che rasenta la follia, l’azienda americana mette il progetto nelle mani di un solo uomo, Howard Scott Warshaw, uno dei più straordinari creatori di videogiochi che la storia ricordi. Egli si fa installare in casa un potente computer per lavorare alla creazione del gioco ininterrottamente, realizzando al meglio delle proprie possibilità un prodotto ispirato all’universo della fiaba di Elliott e del suo amico venuto dallo spazio. Sorprendentemente, Warshaw riesce a concludere i lavori in tempo, e il gioco esce nei negozi nel dicembre 1982.

All’inizio, come previsto, il videogioco di E.T. vende bene, ma nel giro di qualche giorno accade l’inaspettato: la gente, passate le feste, torna nei negozi a restituire la cartuccia del gioco. «È troppo difficile» protestano i bambini «non si capisce che cosa dobbiamo fare». In effetti, la storia raccontata da Washaw è molto lontana da quella di Spielberg, e le atmosfere del film non vengono in nessun modo colte dal gioco. È un vero disastro.

Il videogame di E.T., uno dei più ambiziosi e costosi progetti videoludici del tempo, è un insuccesso. Atari, convinta di vendere milioni di copie, stampa centinaia di migliaia di costose cartucce che restano invendute. L’azienda entra presto in crisi finanziaria; persino i costi di stoccaggio delle copie rimaste diventano insostenibili. Atari, così, sceglie di insabbiare – letteralmente – la questione, caricando tutte le copie rimaste su un gruppo di camion diretti in una discarica del Nuovo Messico. Migliaia di copie di E.T. vengono sepolte nottetempo, lontano da occhi indiscreti, nella remota località di Alamogordo.

Nel giro di qualche anno, questo evento diviene una sorta di leggenda metropolitana fra gli appassionati.

Il ritrovamento delle copie del gioco Atari nel Nuovo Messico.

Trent’anni dopo, però, qualcuno provò davvero a scavare nella discarica di Alamogordo, nel tentativo di scoprire la verità. Fu così che il 26 aprile 2014 il “gioco della vergogna” emerse dalla sua tomba: centinaia di copie di E.T. vennero estratte da un gruppo di archeologi, catalogate ed esposte in decine di musei nel mondo. Ne fecero un documentario intitolato Atari: Game Over, che vede tra i suoi protagonisti anche Ernest Cline, autore di quel Ready Player One trasformato recentemente in film – ironia della sorte – proprio da Steven Spielberg.

Questo curioso fatto nasconde in realtà una delle pagine più nere dell’industria videoludica. Il fallimento di E.T., infatti, innescò una serie di reazioni a catena che portarono al collasso dell’industria videoludica americana e al suo conseguente trasferimento in Giappone. I giochi di oggi, da Nintendo alla PlayStation, sono tutti figli di un piccolo extraterrestre che, suo malgrado, finì sepolto sotto una montagna di sabbia del deserto.

Lorenzo Mosna

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