Impressioni di una crisi

Ricordare

Avevo scritto il seguente articolo nell’agosto del 2013 per il Giornale del Popolo, quotidiano purtroppo nel frattempo scomparso. Il testo era nato da un tragico fatto: una frana improvvisa che aveva causato dei morti vicino al laghetto di Cama in Mesolcina. Siccome nell’articolo citavo Claudio Magris avevo poi inviato per conoscenza allo scrittore di Trieste la pagina dell’allora quotidiano della nostra Diocesi. Claudio Magris – che non usa il computer – mi aveva gentilmente risposto con una e–mail attraverso la sua segretaria.
A distanza di sette anni dalla loro stesura, rileggendo queste righe vi ho trovato alcuni spunti che trovo di attualità: la sofferenza, la morte, il ricordo… Soprattutto in rapporto ai difficili momenti che tutta l’umanità sta attraversando. La «caduta delle montagne» in questo caso può diventare quindi metafora della «diffusione dei virus». Naturalmente di tutti i tipi di virus…!
Penso dunque di far cosa utile mettendo a disposizione dei lettori del’Osservatore questo mio testo dopo avervi apportato qualche piccola modifica, aggiunta/aggiornamento.

Capita ogni tanto che una bella fetta di qualche montagna, o anche un semplice masso delle nostre Alpi, venga giù. Magari ogni tre, quattro, cinque secoli… improvvisamente, inaspettatamente.

Scoscendimenti di dimensioni enormi, che hanno spazzato via e seppellito interi villaggi, sono avvenuti nel 1513 tra Biasca e Malvaglia, nel 1618 a Piuro in Valtellina, nel 1806 a Goldau…

Ai piedi di Flims, famosa località turistica nei Grigioni della Surselva, c’è una frana gigantesca che risale a un’epoca glaciale della preistoria. Si tratta dello scoscendimento più ampio avvenuto in quel periodo in Europa: una massa di detriti rocciosi del volume tra gli 11 e i 13 km (!) cubi. Oggi quest’immensa area – situata tra il villaggio e le famose gole del Reno – è ricoperta da un fitto bosco di abeti rossi. In questa foresta sono incastonati due tra i più bei laghetti alpini svizzeri: il Caumasee e il Crestasee. Tra l’altro, i grigionesi, pur tra tutte le difficoltà geologiche del caso e i delicati equilibri ecologici da salvaguardare, sono in pochi anni riusciti a realizzare sotto a questa enorme frana una galleria di circonvallazione di ben 3 km di lunghezza. E ciò per togliere gran parte del traffico motorizzato dal paese. (Ticino impari!)

Flims - Flimsterstein

Flims – Flimsterstein. (Foto: O.Galli)

Il comune di Flims è ancor oggi dominato alle spalle dall’impressionante parete di roccia friabile del Flimserstein. Salendo per un paio di chilometri lungo la strada in direzione est si arriva alla frazione di Fidaz: antiche case contadine e alcune recenti costruzioni di appartamenti di vacanza.

Alla fine dell’abitato la strada asfaltata prosegue inerpicandosi per la località di Bargis. È più o meno da dove ai veicoli privati è proibito continuare che diversi anni fa, a monte della strada, ho scoperto, quasi per caso, un posto che oserei definire magico. Nel bosco c’è un ampio prato in declivio aperto verso l’alto sulla strapiombante parete della montagna e verso il basso sul versante che scende sulla piana di Trin Mulin. Tutto lo spazio è delimitato da un basso muro di cinta in sasso. In mezzo a questo spazio ben curato c’è un “memoriale”. Ma cos’è un memoriale? Un luogo della memoria.

Flims - Memoriale

Flims – Memoriale della tragedia del 10 aprile 1939 (Foto: O.Galli)

Bisogna aprire un grande cancello di legno per accedervi. In una piazzuola al centro, sopra un piedestallo, la statua in bronzo di un bambino nudo con le braccia alzate verso il cielo. Dietro, protette da un’ampia tettoia di legno e cemento, diverse lapidi fissate alle pareti. Ma per ricordare chi, e cosa? Una tragedia.

Bisogna leggere per capire. Innanzi tutto la grande lapide in marmo nero posta al centro. E tradurre dal tedesco. Era il 10 di aprile del 1939. Scopro più tardi su Internet – curiosa coincidenza – che in quello stesso giorno era nato lo scrittore Claudio Magris: un lunedì di Pasqua.

Alle ore 11.48 si staccò improvvisamente dalla sovrastante parete rocciosa del Flimsterstein un’enorme massa di detriti e di ghiaccio. In pochissimi secondi l’intero Kinderheim situato in quel luogo fu completamente spazzato via. Su ventotto persone presenti nella casa ne perirono diciotto. Tra i morti molti bambini, alcuni di soli due o tre anni. Parecchi non furono mai più trovati.

Ecco anche il perché di alcune scritte. Come questa in italiano: DARIO GALLOTTI / *7 MAGGIO 1926 / PAPÀ, TU CERCHI INVANO / IL MIO CORPO INFRANTO / IO SONO DOVE GERMOGLIA UN FIORE / DOVE L’UCCELLO CANTA / DOVE NASCE E DOVE TRAMONTA IL SOLE / OVUNQUE SEMPRE CON TE. Sulla lapide figura in altorilievo anche la testa in marmo del giovane Dario. Dalla data di nascita deduco che aveva tredici anni.

Straziante. Era un bambino di Chiavari, forse portato all’estero per proteggerlo dai pericoli di un’incombente seconda guerra mondiale. C’è un’altra lapide, in tedesco, con un epitaffio pure dedicato a questo ragazzino…; è della famiglia di sua mamma: forse già morta, o separata dal marito. Impossibile sapere.

Un’altra lapide è dedicata a un bimbo di origine turca: si capisce subito la sua nazionalità dalla mezzaluna e dalla stella scolpite alla fine del testo. Non noto invece in tutta l’area alcuna croce. Pensandoci mi sembra una scelta giusta quella di non esporre in un luogo come questo alcun simbolo religioso. Un posto che intende ricordare la morte che accomuna tutti. In questo caso femmine e maschi, piccoli e grandi – probabilmente di fedi diverse (ma anche di non credenti !) – contemporaneamente come qui in un unico tragico destino.

Flims - Memoriale

Flims – Lapide che ricorda i morti della tragedia del 10 aprile 1939 (Foto: O.Galli)

La pietra, che a volte uccide, può però anche servire a ricordare. Sicuramente meglio, e più a lungo, di tanti bla, bla, bla. E in modo più duraturo rispetto a papiri, tavolette di cera, pergamene, carta… O software di computer… Ah, la digitalizzazione che in breve tutto dimentica e smarrisce!

Il nostro concittadino prof. Fabio Soldini (già docente di italiano al Liceo di Lugano) ha inventariato e trascritto in un bel libro apparso nel 1990 (Le parole di pietra) tutti gli epitaffi che è riuscito a rintracciare nei cimiteri del Mendrisiotto. Uno, che si trova nel “vecchio cimitero” di sant’Antonino a Besazio, ricorda il giovane maestro di scuola Siro Galli. Era un fratello di mio nonno, morto alla fine dell’Ottocento a soli diciannove anni. Un mio antenato del quale sono venuto in un primo momento a conoscenza della sua – seppur breve esistenza – solo grazie a questa bella lapide di marmo bianco.

L’usanza di redigere epitaffi risale da noi all’Ottocento. E si manterrà solo fino ai primi decenni del Novecento. L’ultimo, più recente epitaffio nel Mendrisiotto, Soldini lo ha scovato nel cimitero del già “Magnifico Borgo”. Si trova sulla tomba del dottor Aldo Grigioni, tragicamente scomparso nel 1968 in un banale incidente automobilistico mentre rientrava dalla visita a un suo paziente. Assurda fine per un medico chirurgo che chissà quante persone aveva in vita sua curate – e salvate!

Molte lapidi ottocentesche sono purtroppo scomparse negli ultimi tempi dai nostri cimiteri. Distrutte da persone inconsapevoli del loro valore storico e artistico. Un vero peccato. Oggi gran parte dei nostri cimiteri sembrano diventati caveaux di grandi banche. Al massimo con l’aggiunta, oltre che dei dati anagrafici del defunto sulle cassette cinerarie, di qualche fiore di plastica. Una vera assurdità. Andate a leggere Guido Ceronetti, che sul tema ha scritto alcune magistrali pagine. Oggi si è persa, anche per cambiati usi e costumi, la consuetudine di scrivere epitaffi. Quelli ottocenteschi erano spesso infarciti di ridondante e tronfia retorica. Epitaffi che comunque servivano a far capire, e oggi a ricordare, alcuni aspetti, caratteri o fatti della vita del tempo dei nostri antenati. Come per esempio con i popolari “ex voto”: pitture anche ingenue ma sovente cariche di grande umanità.

Ai nostri giorni la memoria si fa sempre più labile. Deleghiamo i ricordi ai file dei computer che ce li conservano fin che qualche virus, o il semplice fulmine di un temporale, non li cancella tutti d’un colpo. Stiamo perdendo un corretto, equilibrato rapporto con la natura insieme alla consapevolezza della sua precarietà. Qualcuno già pensa di trapiantare la nostra testa su un altro corpo, “più sano”. Come su quello di un individuo il cui il cervello è diventato “piatto”.

Ma io mi chiedo se non siano piuttosto le nostre menti, prima ancora dei nostri corpi – continuamente immersi in un frenetico presente – ad esser diventate ormai quasi completamente piatte. Così da quanto siamo immersi in un continuo presente quasi esclusivamente dedicato al compulsivo carnevalesco shopping.

Più che di chiese, o di cimiteri, costruiti piuttosto per la vanità di vivi malamente sopravvissuti che per ricordare i defunti, o di centri commerciali dove tutto in fretta si consuma, non sarà che l’uomo abbia oggi piuttosto bisogno di luoghi di pace e di silenzio? Luoghi – “memoriali”– per coltivare la memoria. Posti per ritrovarsi, per fermarsi a meditare, a riflettere sulla vita, e sulla morte. Sull’umana condizione della nostra effimera, transitoria esistenza?

Vorrei terminare con questo aforisma della – un po’ anche nostra – Dacia Maraini: “Il compito, dopo la morte di una persona amata, è quello di imparare a coabitare con il suo ricordo”.

Ricordare, ricordare: verbo del quale stiamo forse perdendo lo stesso suo… ricordo.

Orio Galli

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