Personaggi

Romanziere, politico e liberale indomito: addio a Mario Vargas Llosa

Mario Vargas Llosa

Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa (Fonte: Fundación Internacional para la Libertad)

Il seggio numero 18 dell’Académie française – dove sedeva come primo romanziere a non aver mai scritto in lingua francese – è ora vacante: Mario Vargas Llosa è scomparso il 13 aprile a Lima all’età di 89 anni. A darne l’annuncio è stato il figlio, Álvaro Vargas Llosa, in un post su X. Una grave perdita per la letteratura del Novecento e per il liberalismo, di cui Vargas Llosa è stato uno dei rari promotori e guida a livello mondiale. La passione per la letteratura fu immediata e l’aveva attraversata tutta in gioventù, a partire dai romanzieri dalla Lost Generation, William Faulkner, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, John Dos Passos, fonte d’ispirazione per le sue future opere. Ma le sue radici letterarie affondavano nel XIX secolo: Honoré de Balzac, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Stendhal, Nathaniel Hawthorne, Charles Dickens, Herman Melville, tra i tanti.

Mario Vargas Llosa era nato nel 1936 ad Arequipa, in Perù. Figlio di genitori divorziati, manifestò precocemente l’interesse per la scrittura, che lo avrebbe portato a pubblicare decine di romanzi tradotti in tutto il mondo. Ma soprattutto a guadagnarsi uno dopo l’altro numerosi premi letterari, tra cui il Premio Principe delle Asturie e, nel 2010, il Nobel per la Letteratura – il primo mai assegnato a un autore peruviano. La sua carriera s’inserì in un’eccezionale stagione della letteratura latino-americana. Che da Jorge Luis Borges – Nobel mancato – arriva a Isabel Allende, passando per Octavio Paz – che il Nobel lo vinse. Vargas Llosa acquisì fama negli anni Sessanta con romanzi come La città e i cani (1963), La casa verde (1966), Conversazione nella Cattedrale (1969). Era uno di quegli scrittori che credevano nel romanzo come genere centrale, dal sapore moderno quanto ottocentesco, ma l’unico capace di esprimere in modo ambizioso la totalità dell’immaginario.

Non è un caso che il Nostro fosse quasi ossessionato da Gustave Flaubert che, con il suo Madame Bovary, è figura ricorrente nei suoi scritti ed elevato a sacro modello della descrizione letteraria. Come ogni grande narratore – oltre cinquanta i volumi pubblicati – Vargas Llosa ha viaggiato in tutto il mondo e ha vissuto a Lima, Parigi, New York, Londra, Barcellona e Madrid. Oggi è salutato come l’ultimo esponente del “boom” letterario latino-americano. Amico, si capisce, di tutti i grandi scrittori di lingue mediterranee della sua generazione. Da Gabriel García Márquez – su cui il peruviano aveva scritto una tesi di dottorato nel 1971 – a José Saramago. Da Julio Cortázar a Carlos Fuentes. Fino a Pablo Neruda e Claudio Magris. Vargas Llosa ha spaziato tra diversi generi, dal giornalismo (iniziato già da adolescente), alla saggistica, fino al teatro. Per gran parte della sua vita ha continuato a pubblicare articoli.

Ma Vargas Llosa non fu soltanto un grande letterato e romanziere. Come molti intellettuali latinoamericani del secolo scorso, anche nel suo caso, la sua avventura politica era cominciata a sinistra. Da giovane, quando portava sottili baffetti scuri, era ammiratore di Fidel Castro. Ma poi si disilluse delle cause rivoluzionarie dell’America Latina. La rottura con il regime cubano fu netta. E culminò in una lettera aperta firmata, tra gli altri, da Simone de Beauvoir e Alberto Moravia – ma non da García Márquez, che continuò a sostenere Castro. Negli anni Ottanta, Vargas Llosa si spostò su posizioni di centrodestra, anche per effetto del clima politico dell’epoca. Avendo conosciuto da vicino le derive del collettivismo, si affermò sempre più come un irriducibile avversario del potere assoluto in ogni sua forma. Dopo aver preso le distanze dalle ideologie rivoluzionarie, abbracciò il liberalismo, di cui divenne uno dei più tenaci difensori a livello internazionale.

Tentò anche la via politica. Candidato – riluttante – alla presidenza peruviana nel 1990 per la coalizione di centrodestra Frente Democrático, doveva affrontare una nazione devastata da un’insurrezione guerrigliera maoista del Sendero Luminoso e da un’economia al collasso, segnata dall’iperinflazione. Ma al secondo turno, gli elettori gli preferirono l’oscuro professore d’origine giapponese Alberto Fujimori, che avrebbe poi instaurato un regime autoritario durato fino al 2000. Sorprendentemente, nell’ultima fase della sua vita arrivò a sostenere Keiko Fujimori, figlia del rivale, mostrandosi tollerante nei confronti delle aspirazioni autoritarie (di destra) che aveva combattuto. Nonostante avesse definito nel 2016 Donald Trump un «pagliaccio demagogo e razzista», è l’errore di molti – tra i pochi – liberali quello di finire, in epoche dominate dall’incertezza e dagli estremismi, per scegliere soluzioni nella destra populista, invece di mantenersi al di sopra delle ideologie, secondo un autentico approccio liberale. Che è non violento, ma umanistico e razionale, anziché protofascista e dogmatico.

Quindi sì, Mario Vargas Llosa è rimase un convinto sostenitore del libero mercato e delle libertà civili classiche, nonché un liberale indomito. Ma il suo avvicinamento a una destra dal sapore reazionario – che invoca il liberalismo economico negando quello politico e sociale – ha lasciato un po’ perplessi. Specialmente se si considera che, a differenza di molti scrittori marxisti, non aveva mai cercato di impartire lezioni morali attraverso la sua sterminata opera. L’autocritica sul marxismo fu onesta e dignitosa. I suoi libri traboccano di individualismo, situazioni in cui l’individuo è intrappolato dal potere e solo l’individuo trova la via. La motivazione del Nobel, non a caso, dà a questo proposito una sintesi eloquente. «Per la sua cartografia delle strutture del potere e per le sue immagini della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo». Il che lo fa idealmente un Albert Camus di centrodestra – anch’egli Nobel.

Disilluso dalle cause rivoluzionarie dell’America Latina, con uno sguardo lucido e mai retorico, Vargas Llosa ha denunciato il terrorismo di Stato e l’abuso del potere attraverso la letteratura. E le idee politiche liberali non si riflettono di per sé nei personaggi o nelle trame dei suoi romanzi. Il Nobel, tuttavia, ha dedicato saggi e articoli all’attualità, alla filosofia e al liberalismo. Il richiamo della tribù, pubblicato in italiano nel 2019, è un’opera accessibile per chi desidera avvicinarsi al pensiero liberale. Qui scrive che il liberalismo «ha rappresentato fin dalle sue origini la forma più avanzata della cultura democratica e ciò che più ci ha consentito di difenderci dall’inestinguibile “richiamo della tribù”». Il volume è una sorta di mappa dei pensatori che lo hanno aiutato a ricostruire un sistema di idee dopo il trauma ideologico rappresentato dal disincanto verso il Castrismo e dall’allontanamento da Jean-Paul Sartre, suo riferimento giovanile.

Adam Smith, José Ortega y Gasset, Friedrich von Hayek, Karl Popper, Raymond Aron, Isaiah Berlin e Jean-François Revel sono ancora i protagonisti da rileggersi in quest’epoca di stupidi e dissennati protezionismi anti-mercato e antiglobalizzazione. Ma soprattutto di disprezzo per i valori liberali – diritti umani, stato di diritto, istituzionalismo e responsabilità intesa come corollario della libertà. Questi autori di riferimento di Vargas Llosa offrono alternative culturali e filosofiche che pongono l’individuo davanti alla “tribù” – intesa come nazione, classe o partito – e che difendono con straordinaria attualità la libertà di espressione come valore imprescindibile per l’esercizio democratico. Ma non si confonda la libertà di pensiero con il suo abuso o l’offesa. Né la libertà di parola con l’obbligo di pronunciarsi su ogni cosa in nome della libertà. Non si scambi la critica all’élite con il pauperismo pezzente e plebeo di una certa destra. E neppure il liberalismo economico col monopolio.

Nel 2018 Vargas Llosa fece discutere per un articolo su El País, in cui definì il femminismo «il nemico più determinato della letteratura». Una provocazione che confermava il suo spirito anticonformista di scrittore e politico. L’avvicinamento alla destra attuale che ben poco ha di liberale – ed è apertamente allergica ai paletti del liberalismo classico, dunque lontana dal liberalismo conservatore e dal conservatorismo liberale – ha in parte offuscato la sua immagine pubblica. Ma la sua intelligenza acuta e la mole di opere lo hanno messo al riparo dalla damnatio memoriae. I suoi lettori, forse, gli hanno perdonato alcuni spostamenti a destra, così come gli avevano perdonato il distacco dal marxismo nei decenni passati. Mario Vargas Llosa era convinto che per produrre buona letteratura fosse necessario un clima di libertà. E che la letteratura, proprio per questo, potesse essere un termometro sensibile dello stato di salute di una società aperta.

Amedeo Gasparini

In cima