Cultura

«Se guardo indietro i ricordi mi arrivano a manciate»

Carlo Chatrian ha appena ricevuto in dono una maschera tradizionale singalese, e ne sta spiegando il significato, quando lo raggiungiamo nel suo ufficio al Palacinema di Locarno. È il suo ultimo anno da Direttore Artistico, come è noto, ma sarebbe impossibile intuirlo senza saperlo prima, a giudicare dall’entusiasmo e dalla professionalità che caratterizzano lo staff del festival. Unico (e prevedibile) tabù il nuovo incarico come Direttore Artistico della Berlinale. Si parla solo di Locarno Festival, ma su questo Chatrian mostra la massima disponibilità, anche quando le domande presentano qualche spigolosità.

Quando sono stati annunciati i titoli della 71.esima edizione del festival non sono mancati i mugugni tra gli addetti ai lavori. In particolare sul tema della mancanza di nomi di richiamo immediato. Cosa ne pensa?

«Ho notato anch’io che ci si aspettavano più fuochi d’artificio, d’altronde quello che abbiamo messo in piedi per la 70.esima edizione non era sostenibile, anche economicamente. Quest’anno abbiamo avuto la fortuna – o forse la sfortuna, in termini di clamore attorno al festival – di avere in grande anticipo la conferma dei nomi più importanti, come Ethan Hawke o Bruno Dumont, e li abbiamo annunciati subito. Abbiamo scelto di puntare su volti nuovi. Un po’ perché rispondiamo a quanto ci offre la stagione, un po’ perché i film che ci hanno colpito di più sono titoli arrivati senza un grande battage alle spalle, e un po’ perché penso sia questa la vocazione di Locarno Festival».

Nessuna relazione quindi con la convocazione alla Berlinale, giunta a giugno?

«Non nascondo che abbia complicato un po’ le cose: non perché mi sia messo a lavorare per Berlino, ma perché ho ricevuto richieste stampa e una serie di attività che hanno necessariamente rubato del tempo. Tuttavia non sapevo che fosse un’edizione di addio fino a poco tempo fa. Non è una selezione concepita in questo senso e in ogni caso questo tipo di operazione non corrisponderebbe al mio modus operandi. Penso di far parte di una storia più grande, che è la storia di questo festival, e di aver fatto un buon lavoro con il mio gruppo. Voglio dire, se mi hanno chiamato a Berlino non è perché parlo il tedesco, visto che non lo parlo, ma per il lavoro che abbiamo fatto».

Di questi anni locarnesi qual è il ricordo più bello?

«Sono tanti, è difficile concentrarsi su uno in particolare perché se guardo indietro i ricordi mi arrivano a manciate. C’è la serata con Agnes Varda, o con Otar Iosseliani, e poi da amante del cinema non posso dimenticare il privilegio di parlare sul palco con Michael Cimino, Faye Dunaway o Jean-Pierre Léaud. Quest’ultimo, poi, premiato da Luc Besson, nell’incontro di due mondi apparentemente inconciliabili. Come è avvenuto quest’anno con Antoine Fuqua, seguito nella stessa sera da Bruno Dumont. Contrasti di questo tipo credo possano avvenire solo a Locarno, che è una comunità di persone che ama tutto il cinema, senza distinzioni tra popolare o d’autore. È soprattutto in questo senso che spero di aver dato il mio contributo, a fare da ponte tra mondi e registri diversi».

Il panorama dei festival in generale oggi deve confrontarsi con altri soggetti. Ad esempio tra Cannes e Venezia si è creata una divisione in merito all’atteggiamento da adottare verso Netflix: il primo ha scelto di non inserire in concorso film che non prevedano una regolare distribuzione in sala, dove la seconda ha scelto di abbracciare le produzioni del canale di streaming. In futuro un festival cosa dovrà fare?

«La cosa importante è che un festival non perda la propria identità. Ma è difficile giudicare dall’esterno. Quando si dirige un festival si entra in una struttura consolidata, non si arriva dall’alto cambiando tutto a propria immagine e somiglianza. Poi quello che è utile a Locarno non lo è a Venezia e viceversa… Se io avessi un concorso con nove film americani sarei probabilmente criticato, perché non è quello che si aspetta chi segue Locarno Festival. Viceversa se Venezia mettesse in concorso tante opere più sperimentali chissà cosa succederebbe. Poi la direzione di un festival può influenzare delle particolari declinazioni, ad esempio è indubbio che Venezia negli ultimi anni abbia scelto di dar voce, soprattutto in concorso, ad autori più affermati e che ci sia meno varietà. Ma la trovo una scelta giusta dal loro punto di vista. Mi sembra che per alcuni film americani che hanno scelto in questi anni ci siano stati dei riconoscimenti non solo a livello di premi e di botteghino, ma anche per l’interesse della proposta».

Da quando dirige Locarno Festival ha mantenuto una certa continuità con la direzione precedente e ha anche contribuito a un’evoluzione importante, ricevendo molti elogi dagli addetti ai lavori. Quindi ha dato molto al Festival, ma quanto ha ricevuto dal Festival? Se ripensa al Carlo Chatrian che intraprende questa avventura nel 2013, in cosa lo ha cambiato assumerne la direzione?

«Da un lato, come ho detto e ripeto, cerco di non cambiare e di restare uno spettatore ancor prima che un direttore. Dall’altra parte dirigere ti cambia e si diviene più consapevoli su come prendere delle decisioni sulla selezione o sulla composizione del programma. Di sicuro sono più a mio agio rispetto all’inizio quando salgo sul palco di Piazza Grande. Sul programma abbiamo mantenuto sempre una certa continuità, chiudendo sulla linea della scoperta, rispetto a una prima edizione in cui ho avuto la fortuna di poter selezionare metà del programma con registi già affermati. Ma in termini di struttura Locarno non aveva bisogno di rivoluzioni. Abbiamo costruito la sezione Signs of Life, che si è sviluppata bene, come controcanto alla Piazza. Abbiamo lavorato più su altri settori: sul programma di formazione o sull’Industry ad esempio abbiamo investito di più».

Locarno Festival quanto deve alla sua Piazza?

«Molto, e sarà sempre così. L’altra sera Antoine Fuqua mi ha detto: “Devo raccontare cosa significhi quest’esperienza a Denzel [Washington, nda]”. Perché quando ti trovi lì, davanti a 8000 persone, non è come vederlo in fotografia. Ma è anche il suo limite, perché la Piazza è una struttura fragilissima, come abbiamo visto in questi giorni. Quando fai venire queste persone, con l’investimento che questo comporta, e magari sei costretto a far saltare tutto per la pioggia… diviene una fonte di stress micidiale».

Tra le lamentele maggiori relativamente a questa edizione c’è la soppressione del Kids Corner, struttura adibita al baby-sitting, offrendo ai genitori cinefili la possibilità di lasciare lì i figli per recarsi in una delle sale…

«Il Kids Corner non si chiama più così ma continua ad esistere sotto altra forma. Non è più una nursery, bensì un progetto di atelier portato avanti dalla Supsi. La differenza sostanziale è che non si possono più “parcheggiare” i bambini per 2-3 ore come fossero automobili, ma occorre lasciarli lì per una giornata. I bambini sono gli spettatori del futuro, quindi abbiamo pensato a un programma dedicato a loro, giorno per giorno, che prosegue fino alla sera. Il programma Locarno Kids nel suo complesso invece è potenziato e l’investimento è più alto».

Oggi occorre fare anche i conti con le quota rosa e la percentuale di film diretti da donne. Venezia ad esempio è al centro di molte polemiche per aver ignorato questo punto. In futuro sarà questa la tendenza quando si selezionano dei titoli? Come ci si pone?

«La direzione generale verso cui ci si incammina è di grande attenzione alle preoccupazioni della società, ovviamente bilanciando con la qualità necessaria per avere il miglior programma artistico possibile. Per quanto riguarda Locarno questa attenzione c’è: in questa edizione abbiamo 3 registe donne su 15, ossia meno degli anni scorsi ma comunque una media superiore a quella generale del comparto produttivo. Ma vedere la questione solo in termini di “regie” per me significa un po’ appiattire il discorso, anche perché si finisce per non considerare i casi in cui il film è scritto da una donna o in cui il cast è tutto femminile… Piuttosto chiediamoci che tipo di immagine delle donne ci danno i film. Più della metà dei film in concorso hanno delle donne al centro, di varia età, con un carattere forte e non solo viste come vittime. Mi pare un segnale che riguardi tutto il mondo, anche perché non è che le donne devono parlare necessariamente delle donne e gli uomini degli uomini, i film sono anche un modo per filmare l’altro da sé».

A proposito di cambiamenti, quest’anno c’è in concorso un film, Tarde para morir joven, la cui protagonista ha intrapreso un percorso di cambio di sesso. Forse in futuro dovremo ripensare anche le categorie di “miglior attore” e “miglior attrice”?

«Queste cose cambiano quando un artista pone il problema. Mi ricordo che, quando ancora lavoravo come selezionatore, ero andato al festival di Riga, dove vigeva una tradizione secondo cui il vincitore deve bere un liquore da un corno. Quando ha vinto Jafar Panahi, per ovvie ragioni di fede religiosa hanno dovuto cambiare tradizione e mettere del latte al posto del liquore. In futuro probabilmente i premi come miglior attore o migliore attrice saranno sostituiti da altre formule neutre, come migliore performance».

                                                                                                                                                                                                                                   Emanuele Sacchi

In cima