
Leone XIV saluta la folla presente su Piazza San Pietro dopo la sua elezione.
Ha sorpreso tutti. Davvero tutti. A cominciare dalla folla in Piazza San Pietro, ammutolita alla proclamazione del suo nome perché forse si aspettava un “Petrus”, Parolin o Pizzaballa che fosse. Lo statunitense Robert Francis Prevost, 69 anni, viene da Chicago. Città di Obama, non di Trump. È anche peruviano. In perfetta sintonia col “pueblo”, “popolo fedele” che ha servito da vescovo, tanto quanto lo era stato Jorge Mario Bergoglio.
Ha voluto chiamarsi Leone, come altri tredici papi prima di lui. L’ultimo, Leone XIII, fu il papa della questione sociale, della giusta mercede agli operai e contro il lavoro minorile. Ma si chiamava Leone anche il primo, fedele e fidato collaboratore di san Francesco.
Presentandosi al balcone, dopo la nomina, ha già dettato una mini-enciclica, riassunta in un programma racchiuso in tre parole: pace, sinodalità, tutti. Pace disarmata e disarmante, cioè attiva e propositiva, non semplice tregua armata fra guerre. Un buon auspicio di fronte alla crudeltà in atto nelle terre palestinesi; al sordo richiamo di smettere il conflitto in Ucraina; al riaccendersi dell’odio tra India e Pakistan.
Sinodalità come stile di una Chiesa che cammina, cerca la pace e la giustizia, vicina a coloro che soffrono. Infine quel “tutti”, ripetuto dodici volte, che papa Francesco invocava in continuazione per ricordare che nessuno è escluso dall’amore di Cristo.
Col suo predecessore, papa Leone è stato in perfetta sintonia. Nominato da lui cardinale solo un paio d’anni fa, Prevost era tra i suoi più stretti collaboratori. Resta viva, quindi, la linea di papa Francesco sui temi a lui più cari. Sulla difesa del creato, per esempio, parlando della crisi climatica solo qualche mese fa, affermò che è tempo di passare «dalle parole ai fatti», fondando la risposta sulla dottrina sociale della Chiesa.
Cambia lo stile. Da quello spontaneo, familiare e popolare di Francesco, a uno stile pacato, quasi formale, dottrinalmente rassicurante: con la sua prima benedizione Urbi et orbi, ha voluto concedere in mondovisione l’indulgenza plenaria, un atto nel solco della tradizione, accompagnata dalla recita di un’Ave Maria che a Giovanni Paolo II fu suggerito di non recitare al momento di affacciarsi alla Loggia.
Figlio di sant’Agostino, come ha tenuto a sottolineare, è agostiniano come lo fu Lutero. Vedremo come affronterà lo spirito ecumenico degli ultimi pontefici.
Missionario per vocazione, ha auspicato una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere «come questa piazza con le braccia aperte». Accogliere tutti, tutti noi che abbiamo bisogno della carità, di una presenza, di dialogo e di amore.
Prefetto del Dicastero dei vescovi, si è occupato anche della nostra piccola diocesi di Lugano incontrando, apprezzandolo per il suo lavoro, il vescovo Alain de Raemy.
Luigi Maffezzoli
