Commento

Storia di Golda Meir, la nonna d’Israele

Un ritratto intimo e politico, quello che Elisabetta Fiorito fa in Golda (Giuntina 2024), dove racconta la storia della donna – o nonna, come è stato detto – che fondò lo Stato di Israele. Nata il 3 maggio 1898, Golda Meir proveniva da una famiglia originaria di Pinsk, oggi in Bielorussia. Dopo il fallimento della prima Rivoluzione russa, i pogrom colpirono Kyiv, Kishinev, Odessa e Minsk, costringendo la famiglia a emigrare a Milwaukee. Qui il padre Moshe Mabovič lavorava nelle officine ferroviarie. La madre, Bluma Neidič, gestiva dapprima una latteria e poi una drogheria. Golda la aiutava al bancone. Imparò presto l’inglese frequentando i circoli socialisti. Aveva dimostrato sin da giovane un vivo interesse per la politica. Il futuro marito, Morris Meyerson era invece attratto da arte, letteratura, musica e poesia. Nel 1921, la coppia si trasferì a Denver, poi a Tel Aviv per sperimentare la vita in kibbutz.

Successivamente, si stabilirono a Gerusalemme, vivendo anni di povertà estrema e dando alla luce due figli, prima di separarsi. Golda non era considerata bella: nervosa, dipendente dal caffè, fumatrice incallita di Chesterfield senza filtro. Si innamorò di David Remez, dodici anni più anziano di lei, calvo e magro. In quel periodo, frequentava anche Zalman Shazar, poeta, commentatore e oratore, futuro presidente dello Stato di Israele. Se Remez era il cervello del movimento sionista, sottolinea Fiorito, Shazar ne incarnava l’anima. Presto Golda assunse il ruolo di segretaria del Consiglio delle Lavoratrici Ebraiche. Negli anni Trenta si trasferì a Brooklyn, dove osservò l’emigrazione ebraica dalla Germania nazionalsocialista. L’autrice ricorda anche il contesto geografico e politico dell’epoca. Nel 1935, nella Palestina mandataria, gli ebrei rappresentavano il 33 per cento della popolazione – circa 400mila. Tra i locali, vigeva però il timore che la popolazione ebraica potesse diventare rapidamente maggioritaria.

Il Gran Muftì Amin al-Husseini decise di opporsi. Gli inglesi furono sollecitati a vietare l’immigrazione ebraica e la vendita di terre agli ebrei. La commissione Peel raccomandò sì la partizione della Palestina, ma gli inglesi vietarono qualsiasi forma di adozione di bambini ebrei europei in Palestina. La politica britannica in Palestina non cambiò per paura delle ritorsioni arabe e per il rischio di un’alleanza del Muftì con la Germania – cosa che poi avvenne. «Meglio offendere gli ebrei che gli arabi», avrebbe detto Neville Chamberlain. Nel 1944, Golda apprese delle deportazioni ad Auschwitz e chiese di bombardare le linee ferroviarie, ma gli Alleati si rifiutarono. Dopo la guerra, Golda si oppose agli attacchi dell’Irgun, il gruppo paramilitare fondato da Vladimir Žabotinskij, contro obiettivi britannici. Il 29 novembre 1947, il voto all’UNGA stabilì la partizione della Palestina. Trentatré stati votarono a favore, tra cui Stati Uniti e URSS.

Lo Stato di Israele nacque con i confini comprendenti il 78 per cento della Palestina mandataria. Tra il 1948 e il 1950, arrivarono 800mila ebrei da settanta paesi. Golda divenne ministro del welfare sotto David Ben Gurion. Mantenne la carica per sette anni. Nel 1950, la Knesset approvò la legge sul ritorno – Golda non capiva perché gli ebrei americani non volessero trasferirsi. Da ministra propose leggi per regolamentare il lavoro. Otto ore lavorative, giorno di riposo settimanale, ferie pagate, divieto di lavoro minorile fino a 14 anni e congedo di maternità fino a dodici settimane. Non si occupò della parità salariale né delle pari opportunità. Suggerì un pensionamento differenziato per uomini a 65 anni e donne a 60 anni. Fiorito ricorda che Golda Meir fu attaccata da diversi fronti. Da una parte dagli ortodossi contrari ai diritti delle donne lavoratrici e dall’altra dalle femministe che temevano potesse ostacolare l’emancipazione.

Quando il Mapai vinse ancora le elezioni nel 1955, Meir si trovò al Ministero degli Esteri l’anno dopo. «Israele deve proteggere la sua indipendenza e l’integrità del suo territorio», proclamò. «La nostra politica è di non ferire nessuno, ma non autorizzeremo nessuno a colpirci». La pace con la società araba era ancora lontana. La strategia mediorientale della Casa Bianca era quella di persuadere Gamal Abdel Nasser a schierarsi con l’Occidente e abbandonare i favori del blocco sovietico. Poi si verificò il caso di Adolf Eichmann. Pur essendo contraria alla pena di morte, Golda fu favorevole all’esecuzione di Eichmann. Fu poi la volta della questione del Sinai e la guerra con l’Egitto. Durante il conflitto, Israele conquistò un territorio tre volte più grande del suo territorio originale. Ovvero, Gaza, il Sinai, la Cisgiordania e il Golan, nonché la sponda orientale del canale di Suez.

Nel 1967, Israele vinse la guerra, ma il prezzo fu alto. Gli ebrei dei paesi arabi furono cacciati. Golda Meir divenne primo ministro il 7 marzo 1969 con 287 voti favorevoli, 45 astenuti e nessun voto contrario. A cinquant’anni dal suo arrivo in Israele, diventò la terza donna al mondo a ricoprire questo ruolo. Il suo mandato si concluse con un altro conflitto, quello del Kippur. Subito dopo la nomina, nacque la leggenda della cucina, dove solo pochi membri del governo erano ammessi e dove Golda serviva caffè, tè e biscotti fatti da lei. Donna di ferro con sguardo fulminante, Golda incarnava l’immagine dell’antifemminismo. Richard Nixon, sempre definito “amico di Israele” divenne il principale punto di riferimento di Golda per quanto riguardava l’invio di armi in Israele. A proposito di Stati Uniti, Golda poteva inoltre contare sulla collaborazione dell’ambasciatore Yitzhak Rabin.

Fu in questo periodo che la sua visione sulla questione palestinese si fece più aspra. «Antecedentemente la Prima Guerra Mondiale la regione veniva considerata il sud della Siria, poi una Palestina inclusa nella Giordania», disse. «Non c’era un popolo palestinese che abitasse la Palestina perché semplicemente non esisteva. Non esiste un popolo palestinese e non esistono i rifugiati palestinesi. Nel 1921, anche noi ebrei venivamo chiamati palestinesi». In sostanza, ricorda Fiorito, negando l’esistenza di un popolo palestinese, si negava anche la possibilità di uno stato separato. Poi si arrivò alle Olimpiadi di Monaco e l’attentato palestinese del 5 settembre 1972. Golda autorizzò il Mossad a condurre quella che sarebbe passata alla storia come l’“Operazione Ira di Dio”, una campagna di omicidi su vasta scala che sarebbe continuata per oltre vent’anni. Non sarebbe stata l’anzianità, ma piuttosto la debacle della guerra del Kippur, a segnare la fine della sua carriera politica.

Malgrado Israele abbia vinto la guerra, Golda si è sempre sentita in colpa per non aver previsto il conflitto. Nel 1977, dopo aver ricevuto il Nobel per la Pace il 27 ottobre insieme con Menahem Begin, Anwar Sadat annunciò l’intenzione di recarsi in Israele. E chiese al Primo ministro conservatore di incontrare Golda. Sadat atterrò a Tel Aviv il 19 novembre: «Da molti, molti anni volevo incontrarla» disse alla “nonna” d’Israele. «Perché non è venuto?», domandò Golda. «I tempi non erano maturi», rispose il presidente egiziano. Golda donò a Sadat un braccialetto per la nipote appena nata, mentre Sadat regalò a Golda un portasigarette d’argento. Avrebbe continuato a criticare la politica di Begin proprio nel giorno del suo ottantesimo compleanno, opponendosi alla restituzione del Sinai perché riteneva che Israele avesse il diritto di essere al sicuro. Golda Meir si spense alle 16:30 dell’8 dicembre 1978 a Gerusalemme.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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