Commento

Thomas Mann è ancora profeta dei tempi difficili

Settant’anni dopo la morte, a Zurigo il 12 agosto 1955, Thomas Mann si presenta ancora ai contemporanei con l’aura profetica che le crisi del nostro tempo sembrano assegnargli. Il 2025 – ottantesimo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e centocinquantesimo dalla sua nascita – coincide anche con la liberazione dei diritti d’autore delle sue opere aprendo la strada a nuove edizioni e ad una riscoperta che cristallizza lo scrittore anche nel panorama letterario contemporaneo. Come osservava Friedrich Nietzsche, ogni decadenza letteraria manifesta la propensione a trattare i suoi autori come vestiti da cambiare a ogni stagione. Mann ha conosciuto morti e rinascite. E spesso condizionate da giudizi morali fondati su una biografia complicata e fraintesa, piuttosto che su un’analisi alla luce della sua produzione. Per troppo tempo si è imputato a Mann tutto … Ambiguità politiche, tono alto-borghese, discriminazioni familiari, ipocrisie di un matrimonio nonostante le attrazioni omoerotiche.

Eppure, come rivelano i suoi diari – presto disponibili anche in italiano grazie al lavoro di Elisabeth Galvan – dietro la maschera dell’autore apparentemente altezzoso si nascondeva un carattere tormentato, autoironico, afflitto da dubbi. Un uomo capace di autentica devozione verso la moglie, Katia Pringsheim, di profondo affetto per i figli e di un pudico senso di umanità. Uno dei più persistenti malintesi critici ha riguardato la presunta natura tradizionale dell’opera manniana. Considerato l’ultimo dei grandi narratori ottocenteschi, uno scrittore dedito alla riproduzione del “chiacchiericcio” dei salotti borghesi, in realtà Thomas Mann fu soprattutto uno sperimentatore di forme e pensieri. Un alchimista – certo: a volte noioso e pomposo, non nascondiamolo – della narrazione che riuscì nell’impresa di salvare il romanzo dall’aspirazione moderna a disfarsi della rappresentazione epica. Il malinteso nasce dall’ostinazione a considerare I Buddenbrook (1901) come il suo principale capolavoro.

Il romanzo era l’opera di un venticinquenne in cerca di un contenitore realistico in cui calare con prudenza le novità della sua scrittura. Dietro la saga familiare si nasconde una tessitura musicale della trama e una combinazione ardita di filosofie opposte. Da Arthur Schopenhauer a Nietzsche, sulle orme dei motivi di Richard Wagner – i tre furono i padri spirituali del giovane ed espressione del razionalismo e nazionalismo tedesco di allora. Della “Bürgerlichkeit”, del pessimismo esistenziale, dell’umorismo e della severità valoriale anseatica. La vera grandezza di Mann emerge quando si comprende che ogni suo romanzo ne nasconde un altro. E forse più grande. La Montagna magica (1924) non è solo la storia di Hans Castorp in un sanatorio svizzero. È un sogno – di nuovo: forse pedante – lungo centinaia di pagine dove ogni immagine, pensiero, dettaglio nasconde significati allegorici in cui la rappresentazione della civiltà europea trova profonda interpretazione psicologica.

In Giuseppe e i suoi fratelli (1933), Mann cerca di indicare a un’Europa smarrita, sotto le apparenze di una narrazione biblica – ciò che i miti suggeriscono alla ragione sulle origini di una civiltà che sappia rendersi compiutamente umana. In Doctor Faustus (1947), inventa la biografia immaginaria di un genio musicale nella cui storia intellettuale si delineano i prodromi del tragico patto che la Germania ha stretto con il Nazismo. È proprio in questa dimensione mitopoietica che Mann rivela la sua modernità più sconcertante. Lo scrittore tedesco intuì che il Novecento avrebbe richiesto nuove forme di narrazione per decifrare l’irrazionale che irrompeva nella Storia. Le sue opere diventano così laboratori di senso. E la tradizione letteraria europea viene sottoposta a una continua riscrittura. La sua prosa, apparentemente classica, nasconde un’anarchia formale che anticipò molte delle sperimentazioni letterarie e stilistiche successive.

Mann comprese che raccontare il caos dell’epoca moderna richiedeva una tecnica narrativa capace di contenere le contraddizioni senza risolverle. Di dare voce al disordine senza esserne sopraffatti. In questo senso, i suoi romanzi sono congegni letterari progettati per interrogare il lettore più che per consolarlo. La sua grandezza risiede nell’aver saputo coniugare l’urgenza del presente con la profondità della tradizione, creando un’opera che parla simultaneamente al suo tempo e all’eternità. Non furono l’origine borghese o le scelte di vita a decidere la strada di Thomas Mann. Al contrario, furono il dolore, la morte, la Storia … E la sua storia. La scomparsa del padre, del figlio, le guerre mondiali, il boicottaggio della sua opera, l’esilio … Durante il Nazismo, Mann divenne più di uno scrittore. I suoi messaggi radiofonici trasmessi dalla BBC tra il 1941 e il 1945, registrati in California e diretti ai tedeschi, rappresentano meravigliosi testi di resistenza.

Nel 1950 a Chicago tenne un discorso intitolato “Meine Zeit” – che, peraltro, è anche il titolo alla mostra sullo scrittore a Lubecca presso il St. Annen Museum fino a gennaio 2026. Annunciava un cambio d’epoca. Da una parte quello passato, dall’Ottocento al Novecento. Dall’altra, quello che la nuova Guerra Fredda configurava. Ma anche uno “Zeitwende” personale: da conservatore nazionalista guglielmino (si vedano le Considerazioni di un impolitico) a instancabile democratico durante il Nazionalsocialismo (quel “Lieber Hörer” dei dispacci radio che lo trasformarono, secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung, nel primo podcaster della Storia). La sua opera costituisce un romanzo della civiltà europea, delle sue cadute nell’orrore e delle sue risalite verso la misura dell’umano. In tempi in cui l’Europa vive nuove tensioni e l’umanità sembra tentata di congedarsi da se stessa, la voce di Mann, cantore dei tempi difficili, risuona con rinnovata urgenza.

Un esempio, se vogliamo, di come la cultura possa opporsi all’orrore attraverso la bellezza e la profondità del pensiero colto e raffinato – oggi disdegnato. Quindi sì, vale ancora l’interrogativo con cui il narratore de La Montagna magica si congeda dal suo eroe sul campo di battaglia. «Da questa festa mondiale della morte, da questo malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa, sorgerà un giorno l’amore?». Mann deve e può essere interpretato come un esploratore delle profondità dell’animo umano e un interprete delle crisi della civiltà occidentale. Thomas Mann è scomparso settant’anni fa, ma è più vivo che mai. E il suo tempo è ancora il nostro tempo. Come lui – piano piano capì che la libertà è anche responsabilità, è agire individualmente per tentare di fare la differenza – anche noi dovremmo ascoltare i suoi moniti attualissimi sulla democrazia. E agire di conseguenza.

Amedeo Gasparini

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