Editoriale

Arrabbiati, disillusi, impotenti

Stop War in Ukraine

Siamo arrabbiati. Molto arrabbiati. Pensavamo che una guerra nel cuore dell’Europa non potesse più accadere, che fosse ormai scongiurata per sempre grazie a quell’Unione europea in cui molti hanno creduto ma che a conti fatti dimostra oggi tutta la sua impotenza, come già avvenuto di fronte all’inarrestabile fenomeno migratorio.

Pensavamo di avere archiviato nei libri di storia le brutalità che il Novecento ci aveva fatto conoscere con la prima guerra mondiale, con la follia nazista che ha provocato la seconda, con la guerra nell’ex Jugoslavia.

Pensavamo di essercela lasciata alle spalle, invece siamo di nuovo qui a registrare una nuova unilaterale invasione di una nazione libera e indipendente, decisa da un autocrate che da una parte si inventa pretesti per paura che i suoi confini possano essere minacciati dall’alleanza Nato (si chiama dottrina delle “sfere di influenza”, mai abbandonata né dalla Russia, né dagli Stati Uniti); dall’altra vuole ristabilire il suo controllo con l’imposizione di un governo fantoccio in Ucraina dopo averlo imposto in Bielorussia.

Siamo arrabbiati ma anche disillusi. Ci eravamo convinti che a livello di potenze mondiali le guerre si sarebbero ormai combattute nel cyberspazio, orientando il voto dell’elettorato nelle democrazie occidentali; pagando hacker come fossero corsari prezzolati inviati dal sovrano di turno nel mare virtuale della rete; boicottando con attentati informatici sistemi bancari, militari, centri nevralgici di intelligence.

Invece non è così. Di nuovo assistiamo a convogli di camion, blindati e carri armati che entrano nelle città; aerei ed elicotteri che lanciano missili e bombardano palazzi e abitazioni; militari equipaggiati di tutto punto che imbracciando mitra setacciando casa per casa, alla ricerca di soldati nemici o civili armati di molotov “fai da te”. Le armi convenzionali, insomma, che hanno distrutto e ucciso nel secolo scorso, fanno ancora risuonare il loro lugubre rimbombo.

Questo ci deve far comprendere quali sono le reali motivazioni di una guerra. La prima grande causa non è la sete di potere o il controllo di un territorio, ma la necessità di rinnovare periodicamente gli arsenali che accumulano materiale bellico. La domanda che ci si pone è: sono i fabbricanti di armi ad essere al servizio della difesa e della sicurezza, oppure sono i politici e i governanti al servizio delle industrie belliche, con lo scopo di promuovere e favorire l’economia locale?

Le popolazioni civili che subiscono morte e distruzione sono le sole vere vittime, mentre i produttori di armi e l’indotto economico che gravita intorno ad essi, aumentano la loro ricchezza ad ogni focolaio di distruzione. Come interpretare altrimenti le parole di papa Francesco rivolte sistematicamente in questi anni ai leader delle Nazioni affinché si adoprino “per porre fine alla corsa agli armamenti e alla preoccupante diffusione delle armi, specie nei Paesi economicamente più avanzati”?

Le guerre non sono pensate nei palazzi del potere politico, ma nei consigli di amministrazione delle aziende produttrici di armi. Come ci ricorda Giorgio Beretta – analista dell’Osservatorio permanente sulle Armi leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa – “quello che vediamo all’opera in Ucraina è anche l’ennesimo braccio di ferro tra i complessi militari-industriali di Stati Uniti, Russia e dei Paesi della Nato”, e citando Francesco Vignarca dell’Osservatorio Milex, “dietro alle scelte di Putin delle ultime settimane ci sono i ritorni economici per il complesso militare-industriale russo, controllato dallo Stato”.

Per questo motivo oggi ci arrabbiamo per la guerra scoppiata in Ucraina, come ci siamo arrabbiati per le guerre che proseguono, dimenticate, in Siria, nello Yemen, in Etiopia o in Afghanistan. Le armi usate in questi conflitti sono fabbricate anche da noi, nel cuore dell’Europa.

E la Svizzera non sta solo a guardare. Ogni anno, esporta nel mondo diverse centinaia di milioni di franchi di materiale militare. Anche se la legge proibisce la fornitura di armi a paesi in guerra, le armi svizzere sono utilizzate nei conflitti, come ha dimostrato una recente inchiesta di diversi media, tra i quali Falò della RSI.

Così, la guerra ucraina diventa pretesto anche nelle aule del nostro parlamento per dare voce ai lobbysti degli armamenti che alzando la cresta chiedono un riarmo e un ammodernamento del nostro esercito.

Di fronte a tutto ciò, sale un senso di impotenza nella maggioranza della popolazione mondiale che non vuole più guerre e invoca un prolungato periodo di pace. Ci sono, è vero, manifestazioni di massa nelle piazze di mezzo mondo per chiedere la cessazione delle ostilità. Ma le immagini che scorrono sui nostri teleschermi ci riportano immediatamente alla cruda realtà di morti e sangue, di milioni di profughi – quasi tutti donne e bambini – che scappano da una minaccia che non sembra cessare.

Un senso di impotenza che abbiamo provato pochi mesi fa anche di fronte alla conquista talebana dell’Afghanistan, ascoltando qui in Ticino le numerose testimonianze di donne che hanno visto finire ogni speranza di poter vivere come qualsiasi donna può fare in una normale democrazia. O di fronte alle masse di immigrati uccisi – nel Mediterraneo o alle frontiere dell’Europa – dall’ipocrisia di chi distingue tra migranti economici e migranti politici, tra chi fugge dalla fame e chi fugge dalla guerra.

Siamo scandalizzati ma impotenti, feriti oggi dal fragore di questa nuova guerra scoppiata alle nostre porte, che nessuno vuole ma nessuno di noi può realmente impedire.

Luigi Maffezzoli

In cima