Editoriale

Da Wilmington alla Casa Bianca: Joe Biden, la vita e la politica

Nel suo Una storia americana. Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire (Mondadori 2021) Francesco Costa ripercorre le biografie di Joe Biden e Kamala Harris: inevitabilmente, maggior attenzione è diretta verso il quarantaseiesimo presidente USA. Considerato un politico chiacchierone quanto caloroso, Biden è anche un gaffeur di prima categoria, certamente non un populista o un demagogo e neppure un “pericoloso socialista”. «Joe Biden è la persona più buona che io abbia mai incontrato in politica», disse qualche anno fa Lindsay Graham (sì, quel Lindsay Graham). «Biden è consapevole sia del suo carattere sia della sua reputazione», scrive Costa. Alle elezioni del novembre 2020 non avrebbe spaventato gli americani. E così è stato. In una campagna elettorale anomala, in piena pandemia di Covid-19, Bianca Biden è arrivato alla Casa perché in primo luogo non era Donald Trump; secondariamente, perché ha giocato la carta dell’uomo responsabile, del vecchio saggio, del tizio tranquillo. «Invece di allargare i conflitti, dividendo la società in buoni e cattivi, Biden si è posto l’obiettivo fuori moda di ricomporre le fratture, indicando nella civiltà del discorso pubblico, nella tolleranza e nei compromessi l’unica strada possibile verso il progresso.»

Sebbene sia riconosciuto oggi come parte dell’establishment par excellance, Biden non proviene dai vertici della società USA. Nato a Scranton, città industriale della Pennsylvania, a causa delle difficoltà economiche la sua famiglia dovette trasferirsi a Wilmington, nel Delaware – il “First State”, il primo ad aver ratificato la Costituzione americana –, dove il padre trovò lavoro come venditore di auto usate. «Il ragazzo si era laureato in un college non particolarmente prestigioso», racconta Costa. «Non sopportava il Partito Democratico perché al Sud difendeva la segregazione razziale, non sopportava il Partito Repubblicano perché pensava che Richard Nixon fosse un imbroglione e la guerra in Vietnam una stupidaggine.» Balbuziente, da giovane Biden si è esercitato a casa per ore ed ore, leggendo e parlando allo specchio: ogni uscita pubblica era una buona occasione per far pratica. In molti gli chiesero consiglio per risolvere diverse difficoltà comunicative: e lui dava loro appuntamento, talvolta anche il numero di telefono. Nel 1966 sposò Neilia Hunter, incontrata alla facoltà di Giurisprudenza a Syracuse. Nel 1972 diventò il più giovane senatore degli Stati Uniti. Per decenni, riferisce Costa, è stato il più povero tra i parlamentari statunitensi. Suo fratello, Jimmy Biden, lo aiutava finanziariamente nelle sue imprese politiche; i primi venticinquemila dollari provenivano da un gruppetto pacifista che sosteneva i candidati contrari alla guerra in Indocina.

Tuttavia, il giovane Biden pensava che fosse ingiusto che i giovani americani che disertassero la chiamata alle armi rifugiandosi in Canada ricevessero l’amnistia. Defilato tra i democratici, non sosteneva le politiche di George McGovern. Il quale venne sconfitto da Nixon, che aveva vinto di venti punti percentuali in Delaware, dove però Biden la spuntò contro il rivale Caleb Boggs: 112’5542 voti contro i 115’528. Il neosenatore si era conquistato la fama di fiero difensore dei diritti della comunità nera del Delaware e contro la segregazione nel paese. «Se si parla delle libertà costituzionali e dei diritti degli afroamericani, allora sono sicuramente un progressista», affermò; ma «su molte delle altre cose mi ritengo piuttosto conservatore». L’incidente stradale che uccise moglie e figlia – e ferì gli altri due figli – scosse tremendamente il giovane Joe. Era il 15 dicembre 1972; qualche settimana dopo sarebbe diventato senatore. Al capogruppo dei dem al Senato, Mike Mansfield, Biden disse che avrebbe rinunciato al seggio; Nixon lo chiamò per le condoglianze e gli suggerì di guardare avanti. Così fece. «Spero di poter essere un buon senatore. Ma […] se tra sei mesi mi renderò conto di dover scegliere tra essere un buon senatore e un buon padre, mi dimetterò». La tragedia famigliare di Biden impose ai vecchi del Senato di prendere il giovane vedovo sotto la loro ala: da Hubert Humphrey, già vice di Lyndon B. Johnson, che lo invitava alle riunioni dei baroni di Capitol Hill, a Ted Kennedy, che lo portava nella palestra della camera alta per socializzare.

Ed è qui che nasce, se vogliamo, la mitologia di Biden, che per decenni si è fatto avanti e indietro da Wilmington alla capitale; tanto è vero che nel 2011 la stazione del Delaware fu intitolata a suo nome. Un altro episodio simpatico riferito da Costa è quando il segretario di Stato Henry Kissinger, aggiunse una “d” di troppo al cognome. «Nessun problema, segretario Dulles», riferendosi al ministro degli Esteri di Dwight Eisenhower. Gli anni Settanta sono gli anni in cui Biden conobbe anche Jill Jacobs: i due stavano bene insieme e si sposarono nel 1977. Al Campidoglio Biden rimase pure quando i democratici persero ben dodici seggi nell’ambito della valanga repubblicana di Ronald Reagan nel 1980. All’opposizione dopo la presidenza di Jimmy Carter, Biden scorticò George Schultz – al Senato per la nomina a segretario di Stato – per le sue posizioni ambigue sull’apartheid in Sudafrica. Dopo la caduta di Carter, era il nome di Biden quello a comparire più volte come possibile oppositore al Gipper, più forte che mai alla fine del primo mandato – Walter Mondale venne spazzato via e raggiunse Humphrey e McGovern nel club degli sconfitti dell’Asinello.

«I politici della carriera longeva […] sanno di essere […] vulnerabili, avendo preso moltissime posizioni, avendo votato migliaia di leggi lungo un arco di tempo significativo. […] Biden si è […] contraddetto più volte», annota Costa. Una gaffe memorabile fu quando Biden copiò un intervento di Neil Kinnock contro Margaret Thatcher. E The New York Times lo smascherò: l’accusa di plagio fu pesante per Biden, che si difese dicendo che si era dimenticato di citare il leader laburista. Poco dopo, emerse anche una citazione estrapolata da un discorso di Robert Kennedy. E a proposito di Kennedy, quando Reagan scelse di nominare Anthony Kennedy – poi ago della bilancia alla Corte Suprema – al posto di Robert Bork, il candidato ricevette novantasette voti a favore. Tre gli assenti, uno di questi era Biden, bloccato a casa da un forte mal di collo. Esami successivi rivelarono un aneurisma cerebrale: le condizioni del senatore erano disperate al punto che un prete lo raggiunse per l’estrema unzione. Alla fine dell’era Reagan, nel cui primo mandato la spesa pubblica destinata alla lotta alla droga triplicò, si consolidò la stagione della costruzione delle carceri.

La popolazione carceraria americana era di un terzo di milione nel 1970, mezzo milione nel 1980, un milione nel 1990. La strategia fu vincente per il GOP, che accusava i dem di essere «soft on crime». Così fu etichettato Michael Dukakis – contrario alla pena di morte –, lo sfidante di George H. W. Bush nel 1988. Nel settembre 1989, sette mesi dopo dall’intervento chirurgico al cervello, Biden era di nuovo in pista. «La buona notizia è che posso fare tutto quello che facevo prima. La brutta notizia è che non so fare niente meglio di prima.» Sono gli anni delle missioni all’estero: Biden seguì l’implosione dell’URSS e le pulizie etniche di Slobodan Milošević; fu contrario la Prima Guerra del Golfo. Presidente della Commissione Giustizia, produsse con i colleghi il “Violent Crime Control and Law Enforcement Act” o “Crime Bill”, approvato nel 1994. La legge, ricorda Costa, stanziava trenta miliardi di dollari per formare centomila poliziotti da dispiegare nelle città americani entro sei anni. Biden «ha ricordato spesso il contesto di quegli anni e le misure che hanno comunque avuto un impatto positivo, ma ha anche ammesso […] che l’idea di combattere la criminalità semplicemente inasprendo le pene si è rivelata sbagliata e controproducente.» Ad ogni modo, tutto dimenticato o quasi quando Barack Obama decise di includerlo nel suo ticket presidenziale.

All’inizio, come ricorda Costa, Biden non era entusiasta. «Il ruolo del vicepresidente è uno dei più ingrati della politica americana, nonché quello con la più ampia distanza tra la rilevanza reale e quella percepita.» Già John Adams disse che il capo del Senato era il lavoro più inutile di tutti; Benjamin Franklin propose di precedere il VP con il titolo di “Sua Superfluità”. Biden aveva apparentemente tutto da perdere, visto che nel 2008 era «la persona che i presidenti consultavano per sapere se una legge o una nomina avesse qualche chance di passare». Obama scelse Biden per la sua esperienza e ne apprezzò le capacità. Dal canto suo, Biden imparò da Obama autodisciplina e meticolosità, scrive Costa. Responsabile del “Recovery Act” – il pacchetto da quasi ottocento miliardi di dollari contro la crisi finanziaria – Biden si rivelò un VP attivo, che non fece ombra ad Obama, sebbene con alcune gaffe «forniva spontaneamente e continuamente materiale da meme destinato a spopolare sui social network». Distrutto dalla morte per tumore al cervello nel 2015 del figlio Beau Biden, alle primarie democratiche di inizio 2020 l’anziano Joe si giocava la carriera. «Biden sembrava avere tutti i punti deboli possibili per un candidato […]: era l’ennesimo uomo, l’ennesimo bianco, l’ennesimo anziano, […] lontano dai suoi giorni migliori […]. Magrissimo, con gli occhi più sottili e le parole un po’ impastata […] la sua candidatura non generava grande entusiasmo […]. Il suo principale punto di forza era il fatto di essere in qualche modo già testato.» Vinse anche per quello.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

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