Editoriale

Il pericolo dei totalitarismi latenti d’Europa

Pensavano fossero stati sconfitti, ma piano piano stanno tornando. Seminano l’intolleranza, predicano l’odio, inneggiano al nazionalismo: non c’è spazio per chi dissente, per chi è diverso, per chi semplicemente non è d’accordo o al servizio della causa. Le democrature (o democrazie illiberali o autoritarie) – che possono trasformarsi in regimi totalitari e che l’Occidente unito aveva sconfitto oramai più di sette decenni fa – stanno sempre di più riacquisendo un indomabile fascino – o almeno nelle loro più essenziali premesse – in ampi settori della popolazione. Europea e non solo. Sempre più spesso, il modello di società aperta e liberale, democratica e tollerante sembra non essere più depositaria di credito e fiducia da parte di chi elegge il malcontento come sua unica ragione di vita. L’invidia sociale alla base di questo sentimento di sfiducia mischiata all’oggettiva crisi economica che ha scosso il Vecchio Continente negli ultimi due lustri sembrerebbe aver provocato in molti elettori interrogativi sulla leadership dei “vecchi politici”, ancorati, nonostante le critiche legittime che si possono fare loro, ad antichi modelli d’intendere la Cosa Pubblica.

Sono tanti gli elementi che consentono di intravvedere la nascita di una democrazia autoritarie – i modelli prediletti da alcuni capi o vicecapi di governo in sella all’Esecutivo di alcuni paesi europei – e quindi di un totalitarismo: innanzitutto, ci vuole un partito. Per quanto questa ottocentesca forma di aggregazione di pensiero – e una volta di cultura – sia vilipesa da grandi masse, essa è pur sempre necessario – almeno nei primi stadi prima della conquista del potere – e assume la fisionomia di un partito forte, unico, unito, in grado di mobilitare la folla – più o meno violenta – con rapidità ed efficienza. Un partito-Stato: un’entità totalizzante, invadente che ha costantemente il polso della società e la domina dall’alto. In generale, sarebbe meglio che il partito fosse nuovo di zecca (costruito sulla personalità del leader), ma anche se questo conserva un’ideologia passata o che si richiami al passato (talvolta oscuro), male non può fare; ad ogni modo, un’ideologia deviata e depurata dagli aspetti più liberali.

Il leader del partito, autentico deus ex machina dell’indottrinamento popolare – personalità forte e carismatica, energica e determinata – è l’incarnazione dell’ideologia prescelta; figura fondamentale per diffondere il verbo assoluto, coinvolgente, vero e più o meno autorevole. Il leader – che si afferma come guida naturale in un momento di crisi partitica o istituzionale riempie il vuoto nocivo lasciato dai canonici enti predisposti – ovvero gli altri partiti – chiedendo sempre l’adesione totale e cieca alla sua causa. Tra il suo popolo – che indirettamente controlla sotto diversi aspetti – e lui si forma una sorta di circolo vizioso: il capofila che vuole assomigliare al suo elettorato e il suo elettorato che vuole assomigliare a lui. Creato l’insostituibile e saldo legame col popolo, l’adesione del medesimo alla figura del leader affascinante e della sua ideologia è pressoché totale. Per il leader, non è difficile acquisire consenso: la sua prima preoccupazione in realtà è mantenerlo. E quindi regalie e prebende alla massa afflitta dal complesso di sudditanza devono urgentemente uscire dalla borsa dello Stato, Stato spendaccione e dai cordoni sempre aperti per creare adesione e consenso. Qualsiasi voce di dissenso va eliminata: è necessario. L’agire quotidiano del leader non può essere intralciato da chi – a torto o a ragione – tenta perlomeno d’instaurare ponderatezza e raziocinino in una vorticosa giostra d’insensatezza dominante nel regime. In questo senso, l’epurazione dei dissidenti, che abilmente ha spento le voci di critica e disapprovazione, consente al boss di avere mano libera in tutti i campi su cui getta la sua bieca ombra di potere.

In seguito all’estromissione dell’eretico, l’abrogazione del merito – altro che “abolizione della povertà” – è un altro passo verso il sistema (proto)totalitario nelle democrazie: distruggere il concetto di individuo – sì, perché il totalitarismo vuole l’anima del proprio adepto – è una prerogativa essenziale per creare un’indistinta massa di miopi ed obbedienti sostenitori. Va da sé, che il sostegno ad ogni forma di negazionismo – che contraddistingue molti movimenti di cosiddetta “protesta” (protesta poi che molte volte non si sa molto bene nei confronti di cosa) – diventa il sistema migliore per opporsi all’evidenza (non solo storica o scientifica). Il negazionismo e la conseguente distruzione del merito portano inevitabilmente alla logica dell’uno vale uno – elogiata e motivo di vanto di certi agglomerati politici – che d’altra parte altro non è che la logica dei servi. Ben inteso: non che alcuni individui valgano di più rispetto ad altri, ma l’eliminazione del merito e il conseguente appiattire la società in nome di una presunta e modellabile uniformità sociale – che elimina la libertà individuale – è quanto è stato fatto in tutti i regimi totalitari. Il leader, dal canto suo, lo sa benissimo, tanto è vero che si rivolge enfaticamente al popolo urlando sguaiatamente: “amici”, piuttosto che “compagni”, o “camerati”. Oppure, semplicemente, “popolo”, sottintendendo l’aggettivo possessivo “mio”.

Lisciare il pelo agli scontenti è fondamentale per chi vuole instaurare un totalitarismo: solleticare gli istinti degli indecisi e degli indifferenti – questa, la categoria più dannosa nelle società democratiche che all’orizzonte vedono la minaccia della propria libertà – può fare la differenza al momento del voto o quantomeno della grassa raccolta di consenso (come ad esempio dei referendum personalizzati). La semplificazione della realtà – azione necessaria per chiunque voglia affermarsi e dominare un dato contesto sociale – è usata verbalmente ad ampio raggio (con i social media a mo’ di cassa di risonanza): a furia di ripetere e ripetere una bugia, questa si trasformerà in verità agli occhi e alle orecchie del grande pubblico, stordito dal messaggio anomalo – non riconosciuto tale, ovviamente –, ma presto vittima della ricerca del consenso.

Per consolidare la propria influenza e assicurare la perpetuità della sua ingombrante ideologia, il leader elimina anche il dissenso che potrebbe levarsi dalla società: in tal senso, egli deve minacciare i giornalisti e accusarli di propagare notizie false, fake news. Il giornalista – quello libero e indipendente – non trova spazio nella società in preda al virus del totalitarismo: egli è aspirato dalla massiccia macchina della costruzione del consenso attorno al capo solo se diventa un cortigiano del potente, un megafono delle idee in cui all’inizio, forse, non crede, ma che presto o tardi diventano anche il suo verbo. Chiunque si opponga con la sua penna alla follia totalitaria e faccia appello alle più basiche libertà di espressione – rispettate de iure e non de facto in diverse democrature – deve essere allontanato, perché potrebbe accendere la scintilla della ragione nei suoi lettori.

Per quello che riguarda il rapporto tra la nazione – spesso una finta repubblica, il più delle volte anticipata dall’aggettivo “democratica” – e i paesi limitrofi, questi sono potenziali nemici: è chiaro che l’invasione e l’annessione territoriale oggi sembrano impraticabili, ma scatenare una piccola crisi diplomatica può essere il primo passo per le mire espansionistiche. Tipicamente, le dispute territoriali – sanate in passato grazie a tortuosi percorsi verso trattati e intricati accordi – sono il pretesto più naturale per instaurare una crisi. Il rapporto con l’estero è determinato dalla ricerca dell’utopica autarchia: sebbene la ricetta in questione non è mai funzionata o quasi in tutta la Storia dell’uomo, i leader più arrogati e presuntuosi – manipolatori di un popolo da social media, non abituato alla crescita intellettuale che solo la cultura può dare – si rifanno ai modelli di economia solitaria, ignorandone l’inefficacia.

Per coprire i fallimenti – spesso in campo economico, visto che prima o poi il riscontro con la realtà arriva – il leader che mira all’instaurazione di un sistema totalitario accusa sempre le gestioni precedenti: coloro i quali lo hanno preceduto – magari anche loro eletti sull’onda di quel popolo che ora si rivolge al decisionismo totalitario – sono i capri espiatori e l’origine di tutti i mali. Non stupisce quindi che l’attenzione dei leader dalle mire totalitarie sia rivolta verso i cosiddetti “poteri forti”: quei poteri forti che egli dice di aver distrutto e che addita come artefice delle più perverse congiure, ma che in realtà sono un ostacolo alla realizzazione dei suoi piani di predominio sociale. Ciliegina sulla torta – in maniera ahimè sempre più vergognosamente manifesta – il più classico dei classici: l’antisemitismo. Per quando possa sembrare un dettaglio, per gran parte delle democrature governate dai ducetti del Duemila, der ewige Jude è sempre una minaccia: più di qualsiasi altro popolo, quello ebraico è sempre stata una delle vittime preferite dei regimi totalitari. Si inizia con lo sdoganare testi come i Protocolli dei Savi di Sion; si passa per le leggi razziali e razziste; si arriva – tramite i gelati e metallici binari del Nord – a Birkenau. Una lezione che certi movimenti politici e alte figure di alcuni governi non solo non hanno capito, ma evidentemente intendono ripetere in modalità diverse.

Ergo, un partito forte, un leader dinamico, un’ideologia rozza, la distribuzione di risorse, l’eliminazione dei dissidenti, l’abrogazione del merito, le minacce ai media, l’uso di notizie false, la semplificazione della realtà, le crisi diplomatiche, la ricerca dell’autarchia, l’individuazione del capro espiatorio e l’antisemitismo: ebbene, se riuniamo tutti questi elementi scopriamo che essi non sono molto lontani da quelli che certi governi – europei e non solo – hanno adottato e adottano nel loro esercizio del potere Esecutivo. Anzi: per molti, gli elementi sopra enunciati sono diventati la prassi nella gestione governativa. La Storia ci dice che per arrivare ad un totalitarismo perfetto servono ancora in genere: la corsa agli armamenti, il totale controllo sui mezzi di comunicazione e le leggi speciali nei confronti di alcuni cittadini. Quando anche questi tre elementi saranno apertamente parte delle politiche di alcuni leader non avrà più senso chiedersi: «Come è stato possibile?» E la cosa più deludente e amara – parlavo prima degli indifferenti – è che saranno in pochi a chiedersi: «Cosa ho fatto io per evitarlo?»

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

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